|
Mescolanze e squarciagola
a cura di
Jean-Pierre Cavaillé
dell'École des Hautes Études des Sciences Sociales di Parigi |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Cronache del napoletano
a cura di
Rosario Dello Iacovo |
|
|
|
|
|
La canzone napoletana e la
scelta politica del dialetto
È lecito ipotizzare che la
scelta di cantare in dialetto, da parte dei gruppi napoletani degli
anni ’90 sia stata motivata da ragioni sociali e politiche
piuttosto che linguistiche?
La domanda che ci poniamo è: 99 Posse, Almamegretta,
24 Grana, per citare i gruppi più noti, scelgono
di cantare in napoletano per farsi capire o per schierarsi con i
ceti meno abbienti, attraverso l’uso di uno strumento di immediata
riconoscibilità come la lingua?
La questione non riguarda solo l’area napoletana, ma più
generalmente e con diversa ampiezza, l’intero territorio nazionale.
Un indizio forte a favore della scelta politica viene da un’analisi
storica. Questi gruppi nascono nei primi anni novanta, nel clima
di forte rinnovamento delle abitudini giovanili, dei codici espressivi,
del mutamento paradigmatico netto e senza indugio dell’immaginario
degli anni ottanta.
Sono gli anni della “pantera”, decine di migliaia di
giovani, recuperano un ruolo di assoluto protagonismo, centinaia
di facoltà vengono occupate per mesi. Quest’energia
trova ben presto una forma d’espressione privilegiata nella
cosiddetta “musica delle posse”. È un genere
strano, musicalmente si rifà all’hip hop nero statunitense
che in quegli anni è dominato dal modello Public
Enemy, una sorta d’appendice mediatica e spettacolare
che conclude in termini simbolici la stagione del Black
Panthers Party. Un’altra influenza è rappresentata
dal reggae e ancora di più dal raggamuffin’, musica
giamaicana dai ritmi molto veloci. Se da un lato possiamo parlare
quindi di globalizzazione, intesa come capacità di determinati
generi musicali di diffondersi ovunque nel mondo, dall’altro
la risposta che avviene nei singoli paesi è certamente orientata
da un gusto locale. In Italia, in particolare, il genere dà
vita a una nuova stagione di musica in dialetto. La questione può
essere inquadrata quindi nella categoria del “glocal”,
ovvero una reazione locale a un input globale.
Dal Veneto al Salento, dalla Sardegna alla Campania, nascono centinaia
di posse che cantano quasi sempre in dialetto, alternandolo qualche
volta all’italiano. Chiaramente, nelle aree del paese dove
c’è una maggiore vitalità del dialetto e una
tradizione letteraria locale, le testimonianze sono più ricche
e significative. Non si tratta però di un dialetto di tipo
tradizionale, e nemmeno il tentativo di recupero colto effettuato
da gruppi come la Nuova compagnia di canto popolare negli anni settanta.
È un dialetto urbano, contemporaneo, che ricorre a prestiti
dall’inglese e dal patois giamaicano che vengono tradotti
nel gergo giovanile napoletano. Il primo singolo dei 99
Posse, per esempio, si chiama “Rafaniello”
e prende in giro i dirigenti del neonato Partito della Rifondazione
Comunista, definendoli con la metafora del ravanello: rosso fuori
e bianco dentro. L’immagine è presa pari pari dal pezzo
raggamuffin del cantante giamaicano Macka B “Coconut”
(noce di cocco) che attacca i buppies (yuppies neri) accusandoli
di essere neri fuori ma bianchi dentro. In definitiva la musica
delle posse si propone di essere uno strumento immediatamente politico
se pur atipico, una sorta di comizio moderno, in cui il contenuto
testuale non è dissimile dalle analisi del movimento.
Nell’Italia del 1990 l’italiano è ormai un patrimonio
acquisito. La lunga marcia di questo idioma può dirsi in
qualche modo, se non conclusa, quantomeno arrivata a un punto mai
raggiunto prima. Anche nelle regioni in cui più forte e diffuso
è l’uso del dialetto, l’italiano è diventato
strumento di comunicazione socialmente condiviso e, pure se non
sempre i parlanti sono in grado di esprimersi compiutamente nella
lingua nazionale, la comprendono senza difficoltà.
Dentro questo panorama linguistico cantare in dialetto non ha, quindi,
la finalità di farsi comprendere dalla propria comunità,
quanto piuttosto il senso dell’appartenenza, dell’adesione
alle rivendicazioni sociali dei movimenti attraverso i modi espressivi
e il repertorio linguistico delle classi subalterne, ancora profondamente
dialettofone. Il fenomeno è ancora più evidente se
consideriamo che i cantanti di queste formazioni musicali, hanno
spesso l’italiano come prima lingua.
Più nello specifico. A Napoli, a partire dal XVIII secolo,
inizia l’abbandono del dialetto da parte della borghesia.
È un processo lungo che raggiunge il suo punto di massima
intensità nel secondo dopoguerra. Il fenomeno va, con ogni
probabilità, messo in relazione con la separazione anche
fisica fra le classi sociali. Il modello abitativo tradizionale
vuole la compresenza nel centro storico e negli stessi edifici di
ricchi e poveri. Ai pieni inferiori questi ultimi e a quelli superiori
i primi. Questo, al di là delle ovvie variazioni diastratiche,
dà al dialetto una sostanziale unitarietà, rendendolo
a tutti gli effetti strumento espressivo condiviso dall’intera
comunità cittadina. A partire invece dal Settecento inizia
l’esodo delle classi agiate verso i quartieri di Posillipo
e Chiaia. Nel secondo dopoguerra il movimento assume dimensioni
di massa, con l’insediamento nei nuovi quartieri collinari
del Vomero, dell’Arenella, dei Colli Aminei.
Il dialetto comincia ad essere percepito come disvalore, perché
il processo di diffusione e affermazione dell’Italiano avviene
secondo i precetti manzoniani. Sostituzione dei dialetti da parte
dell’Italiano. Il napoletano, seguendo il destino di tutti
i dialetti della penisola, perde terreno nei confronti dell’idioma
nazionale, anche se mantiene una vitalità ampia e certamente
maggiore di altri idiomi locali, alcuni dei quali nel giro di pochi
decenni scompaiono. La generazione che dà vita alle posse
cresce con la raccomandazione dei genitori di “parlare bene”,
di parlare cioè italiano. È quindi una generazione
che ha come prima lingua l’idioma nazionale, e proprio per
questo finisce per sviluppare una nostalgia del dialetto, come strumento
espressivo, di collocazione socio-politica, in ultima istanza di
appartenenza antagonista.
|