Nel 2002, sulla rivista «Lingua e stile» (è una rivista di Storia della lingua) è uscito un mio saggio intitolato Per la storia contemporanea del dialetto a Napoli , che ora ha suscitato l'attenzione del prof. Cavaillé. Credo perciò che, a beneficio dei visitatori di questo sito, sia utile un mio riassunto del mio saggio. Preciso subito che questo mio scritto ha esclusivamente una funzione informativa e non persegue alcun intento polemico.
La parola dialetto non è una brutta parola
In primo luogo chiarisco che la parola dialetto è correntemente usata negli studi linguistici scientifici senza alcuna connotazione negativa e senza alcuna sfumatura spregiativa. Si tratta di un termine che risponde all'esigenza di una chiarezza descrittiva scientifica e NON implica assolutamente alcun contrassegno negativo.
Ma queste nozioni sono notissime, per cui è superfluo insistere oltre. Tuttavia spiace che persone che scrivono di cose linguistiche svelino un radicato pregiudizio anti-dialetto, che invece è assente nei linguisti italiani e in tutti i dialettologi. Aggiungo che la terminologia usata (dialetto, lingua, varietà, rete, variazione diastratica, diatopica, diacronica ecc.) appartiene a una tradizione scientifica consolidata e condivisa (perciò certi concetti non devono essere ripetuti ogni volta quando, attraverso una rivista scientifica, ci si rivolge a un pubblico di specialisti). Inoltre va precisato che il fine di queste ricerche non è certo la formulazione di un giudizio di valore o l'affermazione di un "primato" linguistico, ma è la descrizione di uno spazio linguistico, costantemente preso in esame, descritto, analizzato dagli studi pubblicati sulla rivista «Bollettino Linguistico Campano».
Il napoletano a Napoli è molto parlato
Punto di partenza del mio saggio del 2002 è il fatto che il napoletano a Napoli è molto parlato. Si tratta di una constatazione che, per la sua evidenza, difficilmente può essere contraddetta. In seguito questa valutazione è stata confermata attraverso inchieste sul campo (promosse da un gruppo di ricerca da me coordinato) che hanno portato all'indicazione di numeri, percentuali e tabelle, come chiunque può vedere consultando gli studi nel frattempo pubblicati da me e da altri studiosi.
Il fatto che a Napoli il napoletano sia molto parlato rappresenta un dato in controtendenza rispetto a quanto accade in genere nelle città medie e grandi: le indagini dell'ISTAT infatti dimostrano che nelle città l'italiano è molto più usato del dialetto. A Napoli le cose stanno in modo diverso? Perché?
Questo è appunto il problema che a me interessava affrontare. Mi sono quindi cioè domandato che cosa può aver favorito a Napoli la vitalità, la buona tenuta e la conservazione del dialetto. Per rispondere a questa domanda ho esaminato la storia della città, il suo sviluppo territoriale e anche la sua articolazione interna.
Napoli è sempre stata uguale?
L'osservazione della storia della città diventa decisiva per ogni valutazione sulla realtà attuale (anche sulla realtà linguistica) perché è noto che Napoli è molto mutata all'incirca negli ultimi cento anni. La popolazione era prima contenuta quasi tutta nei quartieri che oggi corrispondono al centro storico. Un tempo, fino alla fine dell'Ottocento, la tipica struttura abitativa di Napoli, come in altre grandi città, era quella del cosiddetto palazzo microcosmo: in un palazzo cioè, dal terraneo al piano nobile, fino alle sopraelevazioni sulle terrazze, si trovavano tutte le diverse componenti della realtà sociale. Tutti parlavano con tutti; alla sostanziale solidarietà sociale (testimoniata da Matilde Serao e da altri) si abbinava quella che possiamo definire solidarietà linguistica. Tale vicinanza era fatta di continui contatti linguistici, anche se non venivano meno differenze di vario genere. Vincenzo Cuoco ricorda che a Napoli c'erano come due "nazioni" (popoli) diversi, che avevano due lingue diverse (due prospettive linguistiche diverse, sia ben chiaro, non un napoletano "alto" e un napoletano "basso"), poiché quella che Cuoco definisce «la parte colta» si era formata su modelli stranieri: « Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi». Pur sussistendo differenze consistenti, però, le diverse componenti sociali della città vivevano le une vicine alle altre, potevano non essere sempre d'accordo le une con le altre, ma di sicuro tra loro parlavano in un contatto continuo.
Dalla fine dell'Ottocento la città si è molto modificata. Qualcuno vuol sapere da quando? Una data significativa, com'è noto, è quella del 1884. Un'altra data, per motivi diversi, è quella del 1927. Tra queste due date si è avviato un processo che i geografi hanno poi identificato come "differenziazione". In un noto saggio di geografia urbana si legge: «Dal modo in cui si distribuiscono gli abitanti emerge una nuova differenziazione fra le varie zone della città».
Che i quartieri siano oggi diversificati è peraltro confermato dai risultati del censimento; che vi sia un nesso tra alcuni parametri solitamente indagati nei censimenti (se vengono indagati è proprio perché sono considerati come "indicatori sociali") e gli usi linguistici è affermato sin dai primi studi di storia linguistica italiana. Penso agli studi celeberrimi di Tullio De Mauro, pubblicati nell'arco di oltre quarant'anni dal 1963 a oggi. Ma può anche essere sufficiente leggere i dati di un'inchiesta ISTAT sugli usi linguistici degli italiani resa nota attraverso i quotidiani italiani il 20 e il 21 aprile 2007: i dati ISTAT danno un'idea delle condizioni che favoriscono un più frequente uso del dialetto. Preciso, per inciso, che l'uso frequente del dialetto è di per sé una circostanza largamente positiva, che tra l'altro smentisce molti frettolosi e infondati luoghi comuni radicatisi nelle conversazioni e negli interventi giornalistici degli ultimi decenni.
Ma torniamo alla storia urbana: la storia della città dimostra che a Napoli ci sono quartieri abitati da duemilacinquecento anni circa, altri abitati da trenta o quarant'anni anni: è davvero possibile che tra quartieri tanto diversi quanto a permanenza degli abitanti non sussista neanche una minima differenza relativa agli usi linguistici? In realtà chiunque può notare che ci sono differenze tra i diversi quartieri di Napoli: tutti naturalmente affascinanti e attraenti, ma tutti indubbiamente caratterizzati da storie e vicende diverse.
Riferisco un dato quantitativo concreto: nei quartieri del centro antico, dove prima (anni Venti del Novecento) abitavano circa sei-settecentomila persone, ora troviamo all'incirca trecentomila abitanti. Perciò i geografi parlano di uno «svuotamento» del centro, ma si sa anche che esiste una persistenza abitativa del centro, che in parte è ancora abitato dai suoi abitanti tradizionali, cioè da alcuni dei discendenti di coloro che vi abitavano cento, duecento o trecento anni fa. Chi invece abita al Vasto, all'Arenella, a Fuorigrotta, a Posillipo, al Vomero, a Scampia, non discende da famiglie che da duecento o trecento anni abitano in queste zone; perché queste zone non rientravano nel perimetro urbano, ma erano sobborghi poco abitati o campagne. Queste diverse storie non contano niente? Incrociamo queste osservazioni con le statistiche dei censimenti e troviamo conferma di ciò che chiunque può ascoltare: in alcune zone il napoletano è più presente che in altre ed è usato più assiduamente che in altre.
Cosa ha favorito la buona conservazione del napoletano?
Ci sono condizioni che a Napoli hanno favorito una buona conservazione e una buona tenuta del napoletano?
Domandiamoci a questo proposito che cosa favorisce in una persona il cambiamento delle abitudini linguistiche. Qualsiasi persona che abbia viaggiato può rispondere più velocemente di un linguista e di uno storico: tra gli elementi che più di altri favoriscono il cambiamento degli usi linguistici figura senza dubbio lo spostamento da un luogo all'altro, l'abbandono delle abitudini consuete, poiché il cambiamento di diverse abitudini può comportare anche il cambiamento delle abitudini linguistiche.
Se lo spostamento favorisce il cambiamento delle abitudini linguistiche è possibile che se lo spostamento non c'è diventa più facile conservare meglio le abitudini linguistiche tradizionali, proprie e della propria famiglia. Tale conservazione, secondo i sociolinguisti, è favorita anche dal fatto di abitare in luoghi dove i parlanti tendenzialmente si conoscono tutti tra di loro e intrattengono scambi linguistici per lo più con persone note. Questa situazione in cui un po' tutti si conoscono tra di loro, dai sociologi e dai sociolinguisti, viene definita "rete chiusa". Credo che adottando il concetto di rete chiusa i sociologi non sottintendano alcuna valutazione negativa; di sicuro non c'è valutazione negativa da parte dei sociolinguisti che parlano di rete chiusa. Anzi, fino a prova contraria, conoscere tutti può significare sentirsi a proprio agio, come a casa propria, anche quando si sta in compagnia con gli altri con i quali si condivide un pezzo della propria storia, con cui le rispettive famiglie hanno intrattenuto rapporti di confidenza generazione dopo generazione. Per inciso, le indagini statistiche dimostrano (non è sorprendente) che in famiglia si usa il dialetto più che con estranei.
Dal punto di vista linguistico è comunque rilevante che in una rete chiusa le abitudini linguistiche si conservino meglio. Dove si realizza la stabilità abitativa e relazionale ci sono dunque premesse favorevoli alla conservazione delle abitudini linguistiche tradizionali. Questa circostanza, per inciso, da chi tiene davvero alla conservazione delle varietà linguistica locale, dovrebbe essere vista con estremo favore. Se la stabilità abitativa e la stabilità di frequentazioni sociali favoriscono la conservazione delle abitudini e la loro trasmissione da una generazione all'altra, si può pensare che la conservazione dei modi della comunicazione quotidiana sia favorita in generale dalla persistenza di vari fattori che caratterizzano la vita quotidiana delle persone. Tra questi fattori figura anche la stabilità di altri parametri, relativi per esempio alle condizioni abitative, al livello di istruzione, al tipo di occupazione, alla prospettiva ideologica, allo stile di vita; d'altra parte, però, è anche vero che questi aspetti della vita quotidiana si mutano in fattori decisivi di cambiamento linguistico, soprattutto quando viene meno la stabilità abitativa.
Conclusione: nemmeno "riserva" è una brutta parola
Come si può definire una zona dove certe abitudini si conservano meglio? In italiano da un po' di tempo si adotta la definizione di riserva per indicare una zona protetta: si parla per esempio di riserva naturale. Per chi osserva che in alcune zone la varietà locale si conserva meglio non sembra inadeguato l'uso metaforico della parola riserva: si potrebbe quindi parlare di "riserva dialettale", nel senso di una zona in cui meglio che in altre la varietà dialettale locale si conserva in modo più compatto e più omogeneo. Ciò non vuol dire che altrove tale varietà non sia parlata: a Napoli anche all'Arenella o a Posillipo si usa il napoletano (nessuno afferma il contrario: altre indagini sul campo i cui risultati non sono stati ancora pubblicati danno anche un'idea quantitativa di questi aspetti), ma se abbiamo osservato che la stabilità abitativa favorisce la conservazione linguistica dobbiamo anche osservare che la stabilità tradizionale delle famiglie residenti è più consistente in alcune zone che in altre (senza nulla togliere ai meriti e ai pregi di ciascuna zona). Ma se la metafora della riserva non piace o sembra ridicola, possiamo pensare a un'altra metafora: quand'è per esempio che il ghiaccio si conserva meglio? Nelle distese polari o suddiviso in cubetti separati gli uni dagli altri? Se non piace neanche l'accenno al ghiaccio, possiamo limitarci a dire che l'evidenza dei fatti dimostra, fino a prova contraria (l'onere della prova spetta a chi vuol negare l'evidenza), che in alcune zone di Napoli il napoletano si è conservato meglio. |