Per capire bene la situazione delle lingue minorizzate in Francia, un approccio comparatista con altri paesi è certamente necessario. È per tal motivo che rilascio alcune annotazioni, scritte durante tre brevi soggiorni di cui l'ultimo nello scorso mese di luglio, nel Salento (punta del tallone dello stivale italiano) sulle lingue che vi si parlano e i loro statuti rispettivi. Preciso che la mia competenza in tale campo è molto limitata e che possiedo informazioni molto parziali, così mi attendo molte reazioni da parte di persone più informate e, in primo luogo, quelle degli interessati, ossia gli stessi salentini.
Per un francese che parla e difende una lingua "regionale" la situazione in cui s'imbatte nell'Italia in generale e nel Salento in particolare è in effetti intellettualmente molto stimolante: vi ritrova cose che conosce bene, forse anche troppo, ed altre assai sbalorditive che lo costringono a porsi dei quesiti e gli offrono perciò la voglia di rivolgerne alla gente che va incontrando.
Subito una considerazione generale. In italiano la parola e la nozione di "patois " [1] non ci sono affatto. Viene usato più comunemente il termine, molto meno peggiorativo, e insieme apparentemente neutro, di "dialetto" (dialecte). Tuttavia ciò non vuol dire che si accordi eguale dignità alla lingua italiana, che come si sa è una standardizzazione del dialetto toscano, e agli altri "dialetti". Al contrario: esiste la più forte differenziazione e gerarchia tra ciò che si chiama la "lingua", l'Italiano, oggi parlato da quasi tutti (ma da molto meno tempo rispetto al caso della Francia) e i "dialetti" regionali o locali, che designano tanto le parlate romanze più o meno prossime al toscano, quanto le lingue che ne sono assai lontane (occitano, friulano, ladino, sardo, catalano), sia che non derivino dal latino (il grico per esempio, parlato in alcuni villaggi della Calabria e del Salento: cf. infra) e nulla è più frequente di leggere, anche nella letteratura scientifica, che i "dialetti" non sono affatto "lingue", perché tale termine è strettamente riservato alla lingua standardizzata e normalizzata dello Stato-nazione.
Notiamo di sfuggita che questa distinzione è insostenibile da un punto di vista strettamente linguistico, perché vorrebbe dire che non si può parlare di vera e propria lingua se non c'è unificazione e omogeneizzazione mediante la scrittura sotto il controllo d'istituzioni nazionali, cosa che risulta perfettamente assurda. La sua funzione ideologica si mostra nettamente: offrire una parvenza di garanzia oggettiva all'imposizione d'una sola lingua a tutti i cittadini. La cattiva fede e la contorsione semantica sono a tal proposito senza limiti, come se il riconoscimento dell'esistenza di lingue altre dall'italiano sul territorio rimettesse de facto in discussione l'unità nazionale. Per esempio un critico e filologo come Cesare Segre parla, per il sardo ed il friulano, di «piccoli sistemi autonomi» comprendenti a propria volta dei dialetti, ma evita con cura il termine di lingua [2]. Anche gli (scadenti) ideologi della Lega lombarda, a quanto mi risulta, non rivendicano affatto lo statuto di lingua per quello che continuano a chiamare "dialetto".
Come in Francia, ci sono stati dei progetti di estirpazione piena e definitiva dei "dialetti" [3], e la scuola ha lottato, e lotta ancora - molto più che da noi perché i "dialetti" hanno ancora molti locutori -, contro i dialetti, imponendo la lingua normalizzata, senz'alcuna cura - tranne rare eccezioni - di conservare il patrimonio vernacolare. L'insegnamento dei dialetti non sembra peraltro all'ordine del giorno, salvo per alcuni idiomi che sono riusciti a imporsi almeno parzialmente come "lingue". E ciò perlopiù a due condizioni: la maggiore lontananza dal toscano e la minaccia d'una rapida estinzione. In una Storia della lingua italiana , pubblicata nel 1994, Manlio Cortelazzo scrive: «In una scuola ferocemente dialettofoba, come quella italiana, che finge d'ignorare - e non da dieci o cinquant'anni, ma da secoli - il quotidiano e inevitabile scambio dialettale tra insegnante e scolaro, almeno agli inizi del loro dialogo; che accetta appena, e non frequentemente, che il maestro (ma non l'allievo) possa pronunciare di sfuggita qualche parola in dialetto nel solo intento di proporre il nobile equivalente italiano; che è tanto ossessionata dalla malerba dialettale da non ammetterne assolutamente la scrittura nel timore di legittimarla; in questa scuola non è pensabile che il vernacolo possa in qualche modo entrare» (M. Cortelazzo, I dialetti dal Cinquecento ad oggi: usi non letterari , in L. Seriani e P. Trifone, a cura di, Storia della lingua italiana , Torino, Einaudi, 1994, vol. III, p. 556).
Lo si vede dappertutto. La scuola è tanto più refrattaria ai "dialetti" che restano, in Italia un po' dovunque, parlati anche dai bambini, nonostante ci sia un accordo tutto in giro a deplorare il disinteresse dei più giovani. Se le cose stanno così è perché spesso la trasmissione familiare e sociale diretta continua ad avvenire. Certamente ciò costituisce per noi una gran sorpresa e si avrebbe a mio parere torto marcio se si ritenesse che la penisola, rispetto alla Francia, non abbia che un ritardo di una o due generazioni. E infatti, malgrado il suo statuto sia subalterno al massimo, un ostinato rifiuto di considerarlo come una materia d'insegnamento e un possibile strumento per le forme ritenute di più nobile espressione, il "dialetto", in generale, non soffre della reputazione socialmente e simbolicamente infamante e degradante che conosce tra di noi il " patois ".
A me sembra che, di solito, si è abbastanza fieri del proprio dialetto, o almeno non se ne ha vergogna, e tuttavia si ritiene ch'esso debba restare ciò che è: una lingua di comunicazione locale abbastanza estesa, ma quasi esclusivamente orale, anche se c'è una ricchissima letteratura dialettale, ma che si definisce precisamente come tale, e dunque accetta generalmente di non essere davvero "letteraria", si rassegna così a essere locale e non universale. C'è un risalto della presenza del "dialetto" e della sua importanza nell'affermazione di una identità culturale del luogo, che fa piacere a chi arriva da un paese dove ci si vergogna di "parlare patois ". Al contrario, il riconoscimento della sua dignità linguistica e culturale a pieno titolo, come potenziale creativo e non soltanto come memoria collettiva, resta molto debole, malgrado i lavori e le pioneristiche pubblicazioni di Pasolini e di qualche altro [4]. Ciò è molto differente in Francia, almeno per l'occitano, lingua di cui si sa bene - finalmente - ch'è una lingua letterata e letteraria, al punto del resto che un gran numero di locutori, come il nostro caro Fernand Mourguet (cf. sul mio blog i resoconti dei suoi lavori: http://taban.canalblog.com), rifiutano d'identificarlo con quello da loro parlato, ossia ai " patois " del sud della Francia e lo considerano come un idioma artificiale ed elitario, nonostante la continuità storica dopo l'età medioevale.
Nel Salento, regione molto popolosa, centinaia di villaggi e paesi circondati di zone agricole, il "dialetto" lo si ascolta oggi ancora ovunque e spartisce con l'italiano lo spazio della vita in corso. Il salentino è una lingua dolce e luminosa, notevole, tra l'altro, per i sorprendenti incontri con il latino classico e la moltitudine d'influenze attestate dal lessico. Molto vicino al siciliano per il sistema fonetico, esso resta al contrario piuttosto lontano dagli altri "dialetti" della Puglia [5]. Tuttavia, sulla base d'altre lingue romanze e in particolare del toscano, l'orecchio vi si abitua molto presto. Per ascoltarlo basta sedersi davanti a un caffè (il termine 'terrazza' non conviene affatto), andare al mercato, prendere l'autobus, ecc. In realtà, tutti coloro ai quali l'ho chiesto mi hanno detto di parlarlo. Pure il giovanissimo inserviente del caffè di Cursi, vicino Maglie, lo parla con spontaneità e in apparenza perfettamente
(È ssempre cchiùi bellu quistu ientu! ). Nessuna difficoltà per trovare nei negozi gente che accetti di leggere ad alta voce un racconto in vernacolo al microfono.
Si può inoltre facilmente assistere a rappresentazioni di commedie dialettali, con gran concorso di spettatori nelle piazze dei paesi. Infine il dialetto è sostenuto anche, indiscutibilmente, dall'enorme reviviscenza delle musiche tradizionali e in particolare della pizzica , la tarantella salentina, utilizzata ancora, or non è molto, per la cura dei tarantolati. C'è una discografia considerevole, da collezionismo, soprattutto di emissione attorno e a partire dalla pizzica (ove, meglio dirlo, stanno accanto il meglio e il peggio), e una bibliografia più vasta ancora sulla questione del tarantismo, in italiano, che contiene ugualmente testimonianze e testi di canzoni in vernacolo. Si trovano altrettanto facilmente libri in salentino : raccolte di fiabe, di storielle divertenti, di proverbi, di commedie... una letteratura specifica e limitata, perlopiù strettamente volta sul passato della comunità, senza pretese di creatività e rinnovamento. Per dirla in altro modo, si ha l'impressione che non ci sia alcuna rivendicazione dello statuto letterario possibile, oggi, per il vernacolo.
Esso è inoltre poco scritto sui giornali, per quanto ho potuto vedere, assente in radio e in televisione... Ha trovato, invece, il nuovo supporto delle tee-shirt , ma mai per enunciare una qualsiasi rivendicazione linguistica (per esempio, ho visto in vendita a Gallipoli, questo bel proverbio: «La caddina face l'ou /e llu caddu li usca lu culu , ossia "La gallina fa l'uovo / e al gallo brucia il culo"»). Ho cercato invano (forse ve ne sono) sull'elenco telefonico e nella rete telematica associazioni che abbiano come ragion d'essere il "dialetto", mentre fioriscono iniziative per la cultura musicale popolare. Mi sono detto bonariamente che, se non c'era alcun bisogno di difensori, il salentino godeva allora di buona salute; ma si tratta evidentemente di un modo assai ottimistico di valutare le cose.
Tuttavia il salentino non è l'unico "dialetto" parlato nel Salento. Vi si ascolta anche, in una zona che, dopo essere stata molto estesa, si è ristretta come una pelle di zigrino, il grico ( griko ), lingua ellenica, in cui alcuni vorrebbero scorgere le vestigia della Magna Grecia e che più probabilmente risale all'epoca bizantina [6]. Per quanto ho potuto rilevare, il grico , lingua a lungo screditata e un tempo giudicata anche inferiore al salentino , sulla base della condizione sociale dei locutori, minacciata sia dall'italiano sia dal salentino stesso che guadagna di villaggio in villaggio [7], beneficia attualmente d'un maggior credito e riguardo, così che un'autentica coscienza culturale e linguistica si è sviluppata nella zona, con un paradosso a noi ben noto, che impegnarsi per una lingua non significa doverla poi parlare. Intanto alcune iniziative sono state assunte, come l'apprendimento del grico nelle scuole.
La qualità e l'efficacia di questo insegnamento è oggetto d'una controversia, sulla quale non saprei ovviamente pronunciarmi (cf. sul mio blog: La fable du grico fataliste e du sarde opiniâtre ). Ho soltanto potuto notare la qualità delle pubblicazioni scientifiche consacrate alla lingua e che si trovano in libreria. Alcuni gruppi musicali di prim'ordine, come Ghetonìa , di Calimera (il villaggio forse più attivo nella salvaguardia del patrimonio linguistico grico), che ho avuto la possibilità di ascoltare in concerto, lavorano anche alla sua promozione. La situazione del grico , da questo punto di vista, somiglia più a ciò che noi conosciamo nell'esagono francese, tranne l'ostilità politica ambientale (apparentemente), e tuttavia con lo svantaggio grave dell'esiguità del territorio interessato.
Spero in ogni caso che il mio piccolo discorso vi dia voglia di andare a vedere e ad ascoltare, tanto più che il Salento è altrettanto attraente per i paesaggi, le ricchezze architettoniche e museografiche, la cucina, i bagni, ecc. ecc. Sarebbe certamente anche interessante e possibile, ritengo, sviluppare scambi musicali, sebbene, occorre confessarlo, il piccolo tamburello occitano faccia una magra figura di fronte al suo cugino della Puglia.
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[1] I Francesi dicono patois l'idioma delle zone circoscritte e poco popolose, a prevalente economia rurale e i cui parlanti sono giudicati di cultura e civiltà inferiori a quelle dell'ambiente circostante che usa la lingua nazionale. Adoperano il termine dialecte a proposito delle forme regionali d'una lingua intesa come un sistema linguistico in sé preso, ma che non ha statuto di lingua ufficiale o nazionale. Con la parola argot s'intende, invece, ogni linguaggio incomprensibile ai profani, proprio di un gruppo di persone, della delinquenza, di genti del medesimo mestiere o di un ambiente chiuso. Insomma, ciò che in Italia è il gergo e per gli artisti napoletani è la "parlesia". Attualmente in Italia, invece, si designa con dialetto qualsiasi sistema linguistico popolare, usato in territorio geograficamente limitato, ma non le esigenze espressive letterarie, della tecnica e delle scienze. (Nota del traduttore )
[2] Articolo del Corriere della Sera dell'1 gennaio 2004.
[3] Cf. Ferdinando dal Pozzo, Piano di un'associazione per tutta Italia, avente per oggetto la diffusione della pura lingua italiana, e la contemporanea soppressione de' dialetti che si parlano ne' varj paesi della penisola... , Paris, Cherbuliez, 1833.
[4] Cf. l'eccellente presentazione di Pasquale Cacchio.
[5] Per una presentazione generale, in italiano, cf.
e un articolo di Wikipedia
[6] Cf. su tale controversia:
Un vocabolarietto lo si trova sul sito municipale di Castrignano dei Greci.
Lettura d'obbligo, per un contatto diretto con la lingua e un tuffo nella vita dei grichi tra il 1936 e il 1945: Rocco Aprile, Il sole e il sale. Romanzo griko salentino , pp. 318 - € 16,00, Lecce, Libreria Icaro Editore, via Liborio Romano, 23.
[7] Noto, per esempio, che gli scambi in atto sul forum del sito di Castrignano dei Greci avvengono in salentino . |