Parole 'e Napule
a cura di Amedeo Messina
Questa rubrica è aperta al contributo degli utenti e intende costruire un lessico collettivo. Potete partecipare sia chiedendo il significato di parole a voi non chiaro o sconosciuto, sia spedendo un’analisi semantica puntuale di termini a voi noti.
In ambedue i casi noi pubblicheremo, se volete, il vostro nome.
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ANTÌCCHIA ( a. m. ) sf. Parte minuscola di cosa. Parola in cui risuona la radice dic con il senso di ‘mostrare'. Per il lat. l' index era il sommario, il riassunto di un'intera opera e così pure il segno, la spia, l'indizio; il digitus index era detto così perché usato per additare; l' indiculum il breve esempio e l' indiculus il solo polpastrello del dito indice su cui venga a posarsi quello del pollice, così da significare il poco o quasi niente. Da qui essa viene a Napoli col senso di minima quantità di qualsiasi cosa concreta o astratta.
AURIENZA (a. m.) Parola antichissima e ingegnosa che realizza, come accade quasi sempre in napoletano, la rotacizzazione della precedente /d/ intervocalica di audienza e nel cui significato si conserva quello del latino “prestare ascolto”, “dare retta” e questo, nell’era dell’immagine, mi sembra qualità da preservare. Non va dimenticato, infatti, che di passivo i verbi non hanno solo forme, ma pure una semantica sottile. Vedere e udire sono azioni abuliche che spesso son subite e, al contrario, guardare ed ascoltare implicano attenzioni attive. Il partenopeo si è liberato d’ogni indugio e ha per sempre abbandonato tanto l’uso di audì, come suonava l’antico “udire”, quanto quello di ascutà per “ascoltare”. Adopera, oramai da secoli, un complessivo sèntere o sentì, e precisando con ausulià o usulià l’azione d’origliare o dell’ascolto occulto. Nel mondo invaso dall’inglese il termine audience, a sua volta d’origine latina, non ha più connotazioni attive, ma considera l’udienza, o aurienza che dir si voglia, solo come pura contabilità degli uditóri, tant’è che il suo correlativo auditing ha il significato di controllo amministrativo. Tuttavia qui ritornano le immagini ed allora l’audience oscilla tra il potenziale pubblico raggiungibile da un medium in una certa fascia oraria e l’effettivo tasso d’ascolto valutato dall’audimetro sul numero totale degli spettatori sintonizzati sull’insieme dei canali. Per il calcolo dell’audience non entra in gioco, quindi, chi dà veramente aurienza, ma il numero di chi vede ed ode, o solo “tiene acceso”, anche se in forma passiva e disattenta. Prodotto artificiale di statistiche e sondaggi, queste aurienze confondono la mappa e il territorio e men che meno danno ascolto vero non si dice al cittadino, ma sia pure al semplice utente. Certo, la politica dovrebbe essere scienza dell’aurienza ed è ridotta a un’aritmetica dell’audience, ma ciò rinvia all’uso che si va estinguendo dell’ausulià, stavolta inteso come il praticare in giro e su sé stessi l’auscultazione intima, profonda, della coscienza razionale.
BESGUIZZO (a. m.) Equivalente partenopeo del “bisticcio” fiorentino, ovvero d’un sapiente gioco di parole, com’è ad esempio la paranomàsia, in cui un lieve spostamento nella sonorità dei significanti introduce effetti sorprendenti di significato. Si ascolti il caso di: «Già di pazzia tu puzzi da un bel pezzo» o si ricordi la bellissima metatesi truccata nella «Silvia ... salivi» di Leopardi. Se n’è voluto rintracciare l’etimo in un peraltro inattestato longobardo biskizzan, con il senso proprio dell’inganno e quindi dell’alterco orale, ma restiamo nelle nebbie delle origini ignorate. Occupandoci però solo di Napoli bisogna almeno segnalare il beschizzo de Lo repatriato (III, 17), terza parte della tetralogia de Lo Mandracchio, “Capriccio eroico” di cui fu autore Giovanni D’Antonio agli inizi del Settecento. Nella traduzione in italiano di Antonio Borrelli il termine vien reso con “slealtà”, laddove non si tratta d’altro che di un gioco di parole. Nel testo la doppiezza andrebbe addebitata tutt’al più a Volpe di Sessa che se ne lamenta, ma non certo al salumaio che gli ha proposto per lavoro di vendere biscotti in giro e trattenendogli per pegno la casacca. Quando infatti Volpe torna, senza quei biscotti con cui ha soddisfatto la sua fame, il salumaio gli dimostra essere falsa la motivazione addotta di una ruberia e gli dice con simpatico besguizzo: «Tu li vescuotte mieie porta co ttico, // e la casacca toia resta co mmico». L’equivoco in cui cade il traduttore è nell’accostamento a vescazzuso e vescazzìa, presenti già in Basile, termini nei quali si evidenzia la semantica del gioco di prestigio o addirittura fraudolento. Siamo cioè nello stesso campo ludico, è ben vero, ma davanti ad esiti diversi, perché besguizzo è solo un placido bisticcio di parole e vescazzìa e vescazzuso, al contrario, sono la risoluzione napoletana di termini equivalenti agli italiani “bisca” e “biscazziere”, a loro volta di origine ignorata.
CÒPPA (a. m.) Per dire il sopra, ciò che appare in superficie o in alto, non c’è a Napoli che questo solo termine di volta in volta sostantivo, preposizione o avverbio. Se il suo significato è di esplicita evidenza, non così vanno le cose quando ci si volge alla ricerca di una sua origine precisa. Son pochi i dizionari etimologici che ne danno conto e ciò forse perché appare di ovvia soluzione. Così ci si toglie dagli impicci con la frase sbrigativa che rinvia ad un semplice rapporto tra la ‘coppa’, intesa come recipiente in cui versare liquidi o altro, e la forma similare dell’occipite, ovvero della parte anatomica più in alto della testa umana. Poi il riferimento d’obbligo è la cuppa dei Latini e ciò dovrebbe render chiaro il tutto. Il contenitore di liquidi, del vino in particolare, ha dato per similarità di forma il nome alla parte posteriore della testa.
Sennonché la cosa, messa in tali termini, fa intendere un rapporto per il quale dalla coppa, il bicchiere a forma emisferica con stelo, si passò alla nuca ma ciò non è provabile, perché il latino cuppa per il recipiente è voce tarda e, al contrario, cupa, con il significato della ‘nuca’ è precedente. E basterà citare qui l’accadico kutallu, greco kotúle (‘cavità’, ‘coppa’)per comprendere che c’è stato un passaggio semantico contrario: dalla ‘nuca’ alla ‘ciotola’ e poi alla ‘coppa’. Qui giocò un suo ruolo il termine accadico kuppu con il senso proprio di ‘pozzo’, ‘contenitore d’acqua’, da cui l’ebraico quppâ = cesto, e l’arabo quffa = coffa, venutosi a incrociare con l’altro termine accadico kappu che ha dato origine all’egiziano kapp = testa, al greco gúpe = cavità, al latino caput = capo, al tedesco kopf = testa.
Non a caso in tutti i linguaggi che si parlano in Italia abbiamo termini quali capo e capa per la testa e coppa per la nuca prima ancora della diffusione in grandi copie dell’utensile per bere. Noi abbiamo, inoltre, coppo a designare il tegolo del tetto, ovvero della parte più in alto della casa. Tre termini del tutto sufficienti, a mio modesto avviso, a far notare che il rapporto coppa/nuca si risolve nella sintesi indivisibile tra il concavo e il convesso e non soltanto nella immagine fornita dalla forma cava della coppa. È nel convesso, infatti, che si colloca la parte più importante del cervello, quella custodita dall’occipite che ha il suo nome perché sta ob- capitem, ovvero dietro la testa.
Tuttavia mi pare che sia Napoli a farci ancora adesso intendere il rapporto dalla testa al recipiente. E infatti, non soltanto la sua lingua ben conserva il senso originario della coppa come nuca, da molto tempo prima di quel senso ottocentesco del contenitore, ma vi aggiunse quello della còppola, il berretto tondo in uso già nel Quattrocento. Bisogna poi mettervi accanto un termine come cuoppo, che non si capirebbe se non per includervi sia la forma conica all’esterno sia il vuoto interno tutto da riempire. E così è pure per cuppino, il termine con cui a Napoli si nomina ancora oggi il mestolo, perché strumento casalingo, umile e utile, ove concavo e convesso sono funzionali l’uno all’altro e inseparabili di fatto.
CRASTA/CRÀSTULA (a. m.) 1. Rottame di stoviglia, terracotta, vetro, specchio o altro materiale. 2. Così si dice anche la pietra che vorrebbe essere preziosa e il reperto archeologico fasullo. 3. Il termine cràstula designa pure, per omofonia non infrequente nella lingua napoletana, (avrebbe entusiasmato Raymond Roussel), un uccello che i toscani chiamano “averla” e che i latini nominavano avis quérula, perché emette un suono lamentoso. Etim.: Tra quanti vorrebbero ascendenze dal lat. gastra, -ae (anche gastrum, -i) = vaso, a sua volta dal gr. gástra = vaso di terracotta, da cui per analogia di forma gaster = il ventre, e quelli che propendono per l'origine da clásma, il piccolo frammento cui è stato ridotto un precedente oggetto intero, noi optiamo certamente per questi ultimi, in virtù del fatto che mai a Napoli lo stomaco si è udito dire come crasta o affini, né si capisce dove mai il D'Ascoli e altri abbiano inteso cràsta per il vaso delle piante. Convince, inoltre, la genealogia tracciata dal de Falco che dal plurale greco klásmata ricava un primo cràsmata per la consueta rotacizzazione della /l/, poi un cràstama per metatesi, da cui, infine, gli attuali crasta per caduta dell'ultima sillaba e cràstula per il frequente scambio della /m/ in /l/.
Fras.: Nun crastià si dice appunto a chi non la smette di parlare, dando noia con suono chioccio sempre uguale.
CUNZULÀ (a. m.) In italiano il consolare esprime unicamente azione di sollievo da uno stato di dolore o delusione. In napoletano, invece, sopprattuto nella forma riflessiva, il verbo si arricchisce quasi sempre d’un significato che implica il gioire, il dare e il ricevere piacere, il provar gusto nel mangiare o in altra attività che rallegri i sensi. Del resto la parola viene dal latino consolari, termine composto da cum e solus, e dunque con il significato originario di “restituire l’integrità”, “rendere intero”. L’aggettivo solus è infatti allotropo di sollus, integro, e di salvus, sano e salvo. Lemmi che trovano la base accadica in salwû, completo. Il verbo ha il suo contrario in desolari, con il senso del lasciare in abbandono.
CUNZULAMIÉNTO (a. m.) Il dare o il ricevere conforto con parole, opere o esempi di solidarietà o incoraggiamento. Si ricordi che consolamentum era detto il sacramento della religione catara con cui i fedeli, rinunciando al mondo per consacrarsi al solo Dio, ricevevano il battesimo dello Spirito per mano dei vescovi con il bacio della pace scambiato tra i fratelli.
CUNZULAZZIÓNE (a. m.) Motivo di soddisfazione, di felicità o di alleviamento in casi sfavoriti dalla sorte.
CUNZUÓLO/CUÓNZOLO (a. m.) Il pasto o i generi di conforto che parenti e amici offrono ai familiari di un defunto, dopo i funerali o nei giorni successivi. Di solito consiste in un leggero brodo di gallina, carne lessa o pesce in bianco. Accompagnata da biscotti savoiardi, la cioccolata era un tempo la bevanda più diffusa. Le si preferisce adesso il semplice caffè bollente.
DEZZIONE (a. m.) Si tratta dell’italiana “edizione”, con il tipico fenomeno di caduta della “e” iniziale e il raddoppiamento della “z” in quanto prosecuzione del fonema latino “-ctio”, com’è proprio nel caso di edictio = dezzione. Ciò che nella lingua di Roma fu l’avviso, l’ordinanza pubblicamente notificata, allestimento di giochi o produzione di testi manoscritti su papiri, poi divenne attività mercantile della diffusione di opere stampate. Tutto iniziò con il latino èdere, equivalente all’italiano “metter fuori”, tant’è che designava pure il partorire.
DRAGUMANO (a.m.) Se l’interpres dei latini era l’intermediario del valore da versare in cambio di un acquisto o d’una prestazione d’opera, l’interprete è per noi non più colui che fissa il prezzo, bensì quello che chiarisce il senso di qualcosa altrimenti non compreso o il traduttore in simultanea di un discorso pronunciato in lingua ignota agli ascoltatori.
Dall’accadico targumannum all’arabo targumân si fissa in tutta la cultura mediorientale il significato di interprete, passato in italiano con i termini ‘dragomanno’, attestato già nel secolo XIII, e ‘turcimanno’ di memoria manzoniana. Targûm è poi in ebraico l’ermeneutica della parola sacra e il targumista è contemporaneamente interprete, esegeta, testimone e portatore delle tradizioni e dei misteri religiosi.
In napoletano abbiamo per l’antico il ‘dragumano’, addetto a interpretare le diversità linguistiche al servizio di cancellerie reali, di monasteri e delle transazioni dei mercanti. Attività sbiadita poi nei ruoli sempre più precari della guida occasionale per turisti, del procacciatore di clienti per alberghi, ristoranti e, più recentemente, di giovani da inviare in qualche nuova discoteca.
FELINIA (a. m.) Se la rete è ’a rezza, ovvero l’insieme di coloro che navigano nello spazio virtuale, ’a felinia è la ragnatela, e cioè può designare anche la fitta maglia di tutti i siti che hanno più o meno lo stesso fine. Insomma, essa può benissimo indicare il buon intreccio dei rimandi tra chi ha da condividere qualcosa, traducendo alla lettera, peraltro, uno dei significati dell’inglese web, equivalente in tutto all’italiana “ragnatela”. Francesco D’Ascoli menziona stranamente per tal termine, nel suo Nuovo vocabolario dialettale napoletano, solo il senso di “fuliggine”, dandone l’origine dal lat. medioev. felinea a sua volta derivato dal lat. class. fuligo, -inis, e però il significato suo di ragnatela è riportato già dall’Andreoli. Al pur attento Renato de Falco è poi sfuggito di aggiungere ai suoi recenti “duemilauno modi di dire dialettali” de Il Napoletanario il diffusissimo attaccarse a ’e felinie, con il quale ci si riferisce a quanti si appigliano ai motivi anche di più difficil presa pur di scagionarsi di sciagura o danno procurati.
FÉSSA (a. m.) sf. Si ritiene un termine volgare, ma perché non si conosce il suo significato originale di “porta” che ha in comune col corrispondente italiano ‘vulva’. Quest’ultimo deriva dal lat. vulva con lo stesso senso delle valvae che della porta designano i battenti costituiti dalle quattro pliche combacianti sulla linea mediana del genitale esterno femminile. Il Devoto vi ha potuto scorgere la prova di un’antica fase matriarcale della storia, in quanto l’immagine dell’uscio postula il principio della vita. Il termine nap. a propria volta ha la sua fonte nel tardo lat. fissa. A torto molti ne riportano l’origine a fèndere, come per es. Cortelazzo e Zolli (2, 427) che ne fanno il participio passato del v. lat., ma in tal caso il senso dovrebbe essere di “urtata”, “spinta”, soprattutto se si tiene conto dei composti derivati di ‘difesa’ e ‘offesa’. L’etimo, invece, va cercato nel v. lat. fìndere che vale come “aprire” e da cui deriva, infatti, anche ‘fessura’. Si aggiunga che alla rete dei rapporti propri del linguaggio sessuale dei Latini non risulta estraneo il v. fódere col senso di “scavare”. Il simbolismo della fossa, termine che in questo verbo ha la sua base, ci dischiude una metafora indicante le origini rurali dell’immaginario collettivo ed è presente in moltissime culture nel rapporto tra strumenti di campagna e attività con cui la terra viene aperta, solcata, perforata ed irrigata perché possa dare i suoi migliori frutti. Fras.: è gghiuta ’a f. mman’ê ccriature, si dice quando viene affidato un che di serio e di valore agli incapaci o incompetenti.
FESSACCHIÒTTO/A (a. m.) dim. di fesso. Persona sciocca di cui non avere alcun conto.
FESSARÌA (a. m.) sf. 1. Argomento o cosa di nessun conto. 2. Dabbenaggine, sciocchezza o errore, proprio del comportamento di chi è fesso.
FESSIÀ (a. m.) vt. Ha il valore del far fessa una persona con le varie alternative di significato.
FESSIÀRSE (a. m.) vr. Comportarsi in modo sciocco o controproducente, rivelando sicurezza, boria, superiorità o disinteresse.
FÉSSO/A (a. m.) Aggettivazione del sf., più che un derivato dal v. lat. fatìsci, come accredita più d’uno, tra cui l’Altamura. Convincente appare, invece, la sua appartenenza al fenomeno psicolinguistico che induce a screditare le persone o i comportamenti con appellativi indotti dai nomi degli organi sessuali. Con la stessa sorte di minchione, bischero, pirla o cazzo, la nap. f. è andata ad ingrossare la prolifica famiglia dei genitali che si aggirano, umiliati e offesi, nell’area semantica del minus habens, dello sciocco, del balordo, dello stupido o del grullo, da cui derivano anche minchiata, bischerata, fesseria e cazzata. Sia come agg. che come s. ha sempre uno dei sensi adesso riferiti. Trionfale il suo ingresso in italiano, testimoniato nel 1905 dal Dizionario moderno di Alfredo Panzini con la definizione di “vale stupido, di buona fede e poi galantuomo”, insinuandone un giudizio per il quale il virtuoso lo si preferisce ingiuriare con sarcasmo. Ne fa fede dal 1921 il Codice della vita italiana di Giovanni Prezzolini, il cui primo articola recita: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi”, e si conclude con un perentorio: “L’italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno”. Ed è per tale via che il tutto nap. ccà nisciuno è fesso è diventato prima una difesa personale, poi lo stemma araldico dei molti e, infine, una bandiera nazionale. Fras.: domina il fà fesso, plebiscitario oltre i confini regionali, per il comportamento attivo del raggiro, dell’inganno, della truffa, della semplice scaltrezza o furberia; vestirse ’a fesso, si dice quando ci si finge sciocchi per avere informazioni o altro.
FETTIÀ/FITTIÀ (r. b.) Parole pronunciate con diversi suoni e scritte con grafie altresì diverse, ma che rinviano a un sol verbo che non ha mai trovato spazio in un dizionario, nonostante il suo largo uso, soprattutto tra i giovani degli anni ’60 del secolo scorso. Esso identifica un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o un suo particolare, in modo però concupiscente, fino a poter determinare un che di fastidioso in chi si è reso oggetto dello sguardo. In quegli anni i giovanotti sulle piste di un’avvenente ragazza se la ‘fettiavano’ o perché cedesse alla lusinga del “guardone” da lei incantato o lo mandasse a ‘fettiare’ altrove. Va da sé ch’era spesso necessario limitarsi a ‘fettià’ tutti gli oggetti concupiti e impossibili da avere, fosse anche soltanto una camicia, una cravatta, un paio di scarpe o anche un babà invitante. Il verbo è ormai in disuso proprio perché sembra che si ottenga più di quanto si desideri e ragazze e merci non richiedono più tante strategie per essere acquisite. Riguardo alla sua origine bisogna ricordare che il napoletano ha il termine desueto di ‘fettiglia’, con il significato di fastidio, molestia, seccatura, derivato dal latino figo, fictum. figere, che tramanda il senso del trafiggere, fissare, colpire da lontano. Il che ben rende l’azione immateriale dello sguardo che si fa invasivo.
FÓTTERE (a. m.) vt. 1. unirsi sessualmente con qualcuno in modo che il suo ruolo sia passivo e strumentale; 2. approfittarsi di qualcuno; 3. ingannare, imbrogliare; 4. rif. int. e pron. disinteressarsi, infischiarsi, fregarsene, sbattersene, non curarsi. Etim.: deriva dal v. lat. futùere, con l’esclusivo senso della penetrazione sessuale, verbo a sua volta riconducibile a un probabile *futare con il senso di “percuotere, colpire” che dev’essere servito come base di refutare e confutare quali suoi composti coi significati, rispettivamente, di “respingere, rifiutare” e “confutare, contestare”. Fras.: cumannà è mmeglio ca f., un giudizio con il quale sembra d’obbligo il primato del dominio sul possesso sessuale.
FRATANZA (a. m.) Si tratta d’antichissima parola che risale alla Napoli greca organizzata in fratrie, ovvero associazioni politiche e religiose cui appartenevano tutte le famiglie dei cittadini per ciascuna parte della città, unite da una comune discendenza e dalla protezione dello stesso nume. Non sappiamo quante ne fossero e ce n’è rimasto il nome certo di sole dieci: Aristei (abitanti nella zona dell’attuale piazza degli Orefici); Artemisii (residenti dove adesso è s. Maria Maggiore o della Pietrasanta); Cumei (abitanti dove adesso abbiamo s. Chiara, il Gesù Nuovo e via Domenico Capitelli); Ermei (situati forse intorno all’attuale chiesa di s. Giovanni a mare); Eubei (abitanti nel tratto che oggi va dalla chiesa dei santi Filippo e Giacomo a via s. Biagio dei librai); Eumelidi (abitanti dove adesso è il Duomo); Eunostidi (fratria composta dagli amanti della castità e la cui dimora, con il nome di Vergini, ancor oggi ne conserva la memoria); Kretondi (residenti nella zona che dall’attuale chiesa dei santi Filippo e Giacomo va verso il mare); Pancleidi (abitanti nella zona che sta tra s. Pietro in vinculis e s. Giuseppe); Theotadi (di cui null’altro conosciamo se non la sua derivazione da un nome gentilizio). Il termine phratrìa, come il frater del latino originario in opposizione al germanus, non ha nulla della consanguineità, indicata con adelphos = dallo stesso grembo, ma designa solo comunanza, associazione, dimostrando così la provenienza dall’accadico bèrtu = legame e dall’ebraico berìth = alleanza. Allo stesso modo la fratanza non rinvia necessariamente ai figli degli stessi genitori, quelli che si designano frate carnale, ma denota relazioni sociali volontarie, liberamente scelte sulla base di un comune modo d’intendere e di agire.
FÙNNECO (a. m.) L’italiano “fóndaco”, che può sembrare equivalente, indica un deposito di merci, e non il napoletano vicolo cieco, cortile o piazzetta. Ancora nell’Ottocento si contavano a Napoli ottantadue fóndachi ricolmi di artigiani o di mercanti, dove si riversavano abitanti luridi e cenciosi come appunto i funnachiére e le compagne funnachère. Se ne riscontra l’etimo nell’arabo funduq = alloggio per mercanti, che si vuole a propria volta originato dal greco pandochêion = il tutto raccogliente, su cui ha certamente agito la base accadica dakû = raccolta. Un fùnneco virtuale oggi vuol essere lo spazio delle voci antiche e nuove d’una Napoli sapiente e popolare.
FUTTÌO (a. m.) deverb. da fòttere. s. m. Quantità grande e indistinta. Etim.: il v. da cui deriva
FUTTISTÈRIO (a. m.) s. m. Attività sessuale in cui sono impegnate più persone nello stesso tempo e nello stesso luogo. Ammucchiata. Etim.: calco scherzoso del s. ‘battistero’ con il v. ‘fottere’ sovrapposto.
FUTTÙTA (a. m.) s. m. Lo stesso di ‘chiavata’. In it. vi corrisponde “coito” e in it. standard: scopata, trombata, far l’amore.
FUTTÙTO/A (a. m.) s. e agg. 1. Spregevole, maledetto. 2. Fregato, imbrogliato, buggerato. Nel primo sign. è in genere abbinato a un altro insulto. Fras.: è nu futtuto bastardo.
MACRIATA (c. p.) Pietro Giannone, nella sua Storia Civile del Regno di Napoli, ci fa sapere che tra i molti abusi repressi in Napoli da don Pedro di Toledo vi fu quello di punire con un bando del 1549 un reato definito come de macriata commissa in domo et intus che tuttavia durò fino a tutto il Seicento. Si trattava di un’antica usanza consistente nello schernire uomini di ogni rango e ceto sociale, lanciando pietre alle finestre e imbrattando le pareti esterne e le porte delle loro case con tintura rossa, sterco o altro e, talvolta, appendendovi un paio di corna. Non a caso questa consuetudine oltraggiosa intercettò la tradizione che voleva san Martino, eletto vescovo di Tours nel 371 e celebrato l’11 novembre, eponimo del colle e della certosa che sovrasta la città partenopea, ma noto soprattutto come protettore dei coniugi traditi. Nell’epoca dei vicerè spagnoli capitava di sentire, specialmente nella notte novembrina, il chiasso delle allegre comitive che intonavano schiamazzi e canzonacce, rivelando una tresca coniugale spesso ignota a uno dei due protagonisti o, in molti casi, frutto solo di malignità e pettegolezzi. Questi cori che violavano la privata riservatezza e la pubblica quiete sfociavano spesso in liti furibonde che a volte terminavano in tragedia. Altrimenti, quando l’ingiuriato non si faceva giustizia da sé, poteva ricorrere a una Regia Prammatica che comminava pene severissime contro il singolarissimo delitto, anche se non era facile ottenere favorevole sentenza. Come condizione di punibilità degli accusati, a parte i nobili, gli ecclesiastici e gli uomini del foro, che godevano di molti privilegi, bisognava prima dimostrare di godere buona reputazione con la garanzia di più testimonianze. Si vuole che il termine derivi dal latino macra, designante una tintura rossa.
MAZZAMMA (a. m.) Il termine si adopera col senso letterale di pescame di ridotte dimensioni, di scarsissimo valore gastronomico e di poco prezzo, poi significando per traslato una congerie di diverse cose o di persone e, in forma enfatica e sprezzante, accumulo di scarti della società o di produzione. Per la sua etimologia incredibile risulta il mazonomion, proposto già dal D’Ambra, ma che in greco non si trova da nessuna parte. Come gli càpita assai spesso il D’Ascoli ipotizza un’origine fantastica, cavata questa volta dall’idea di un mucchio di legnetti o mazze, da cui deriverebbe poi mazzamma. Il De Falco è del parere che l’origine risalga al greco maza con il significato di cumulo di cose di nessun pregio, sennonché questa parola ha il senso di ‘focaccia’, provenendo dal verbo massein, ovvero ‘intridere’, ‘impastare’, e dunque sarebbe più vicina alla nostra pizza che non al termine in questione. Egli avrebbe riscontrato una maggiore consistenza nel latino massa, da cui deriva anche ‘maceria’, che con il significato esplicito di ‘massa’, ‘ammasso’, ‘cumulo’, non trova rispondenza semantica nel greco maza, bensì con la base accadica ma’assu in cui troviamo il senso della ‘grande quantità di oggetti’. Il termine latino a Napoli è venuto poi a incrociarsi col suffisso –amma, in tutto equivalente all’italiano –aglia, dando a massa il senso di accozzaglia eterogenea, di generica ammucchiata o di ideologica congerie di persone o cose che si mostrano volgari, rozze, grossolane, sussidiarie. Il significato ideologico è recente e sembra provenire dall’influsso dei termini calabresi ‘marrame’ o ‘marramma’ che designano lo strame, l’immondizia. La diversità semantica col termine di Napoli è fornita dall’escludere mazzamma il senso dell’insieme di rifiuti o spazzatura, proprio delle due parole calabresi. Inoltre è differente anche la loro origine, perché queste ultime derivano, così come l’italiano ‘marame’, dal provenzale mairam, a sua volta originato dal latino tardo materiamen, volgarizzazione di materia per designare i legni delle costruzioni. Mazzamma, invece, si dimostra termine vicino al siculo ‘maramma’ con il senso della confusione.
MMÉSCA (a. m.) Equivalente dell’italiana “mescolanza”, con in più la fantasia che a Napoli ne fa minestra di vari ortaggi, insalata di verdure, farina di diversi grani, mischia d’ogni genere di cose o di persone. Oggi prevale l’uso di mmescafrancesca, con riferimento ironico ai temibili mélanges gastronomici francesi, un tempo accompagnata dalla mmescapesca, sorta di fragaglia malcondita, e dalla mmescamesesca, miscuglio di minuzzoli di carne rinsecchita al sole.
MPARULIÀRSE (a. m.) v. in. rif. Contendere in diverbio, battibeccare, prendersi a parole, disputare.
MPRÌMMESE (a. m.) In primo luogo, innanzitutto, prima d’ogni cosa. Dalla locuzione avverbiale latina in primis. Va da sé che debba essere seguito almeno da nziconna, ovvero “al secondo posto”.
NAPOMUNNO (a. m.) Neologismo coniato dall’autore della voce per designare ciò che di Napoli è nel mondo. Nostalgie di emigranti, fremiti destati da canzoni, ricordi d’un bel viaggio, emozioni suscitate da un racconto o da una commedia. E accanto a questo le richieste d’una spiegazione; la testimonianza d’una frase, d’un modo di dire, d’un racconto; la ricerca di un significato o d’un luogo sconosciuto; il contributo per risolvere un problema o per far crescere le nostre conoscenze.
NFERTA ( a. m. ) Parola che ha una storia tutta partenopea. Non si tratta, come molti credono, d'un termine che ha origine da “offerta”. Essa deriva dal latino inferci o , da cui l'italiano ‘infarcire', con il senso d'insaccare, riempire, metter dentro, ed è pertanto equivalente all'italiano ‘infarto' ed al francese farce al quale noi dobbiamo il sostantivo farsa ben distinto dalla sua parente stretta, ch'è la farcia dei toscani. In particolare il nome nferta è dato all'opuscolo, al libretto, a mano o a stampa, che un autore confeziona per un capodanno come omaggio d'arte e buonaugurio ai suoi più cari amici. In esso vengono raccolte poesie o prose, commediole o canzonette, insomma tutto ciò che non sarebbe facile racchiudere in un'opera compiuta. Tale tradizione sembra risalire al 1780, quando Luigi Serio, autore nello stesso anno del Vernacchio , scritto assai polemico in difesa della lingua popolare, pubblicò quella che risulta essere la prima nferta , intesa come un sovrappiù di giubilo e di festa da inserire nel canestro di pietanze e di dolciumi per nutrire anche l'ingegno, nella cornucopia d'ogni bene prodigato dal solstizio dell'inverno. Nel 1834 fu poi Giulio Genoino ad iniziarne una serie annua terminata solo nel 1856. Tra il 1837 e il 1842 videro la luce anche quelle di Michele Zezza e ad esse dettero seguito, tra gli altri, Luigi Cassitto, Domenico Iaccarino e Luigi Chiurazzi, fino a quando nel 1956, guidate da Max Vajro, ne ripristinarono l'abitudine ed il gusto le migliori penne di quel tempo.
PEZZOTTO (a. m.) A Napoli attualmente si designa con il termine “pezzotto” ogni imitazione, più o meno riuscita, di prodotti originali, dagli abiti firmati alle borse e alle valigie di gran pelletteria, dai CD e DVD ai programmi e alle applicazioni per computer, dai motorini ai decodificatori per segnali delle antenne paraboliche delle TV a pagamento. La stessa compravendita è una libera e creativa imitazione del mercato, con veri falsi commercianti e veri falsi d’autore. Il colmo si raggiunge con il fatto che si “pezzottano” perfino le divise della Guardia di Finanza, utili a fasulle “fiamme gialle” per autentiche rapine di destrezza ai danni degli ignari negozianti.
Nulla di equivalente vi è in lingua italiana. Contraffazione, falso e fasullo, infatti, sono certo dei parenti stretti, ma con significati un po’ diversi. A ben vedere ciò dimostra la genialità di Napoli una volta di più, se deve addirittura inventarsi, nella povertà dei mezzi e con ricchezza della sola fantasia, le parole stesse della propria infaticabile voglia di operare. Se la città partenopea è la capitale della falsificazione, al punto da coniare un neologismo che ne designa l’arte e non ritrova equivalenti con cui tradurlo in italiano, se ne può dedurre facilmente che le spetta pure il primato d’una lingua che si aggiorna in permanenza, senza omologarsi sull’inglese dilagante.
In verità pezzotto è termine d’antica data nel lessico napoletano e, anche se ora disusato, vi designa la parte superiore della camicia, la mancia data sottomano e l’ascialone, ovvero quella parte del morsetto con la quale i falegnami tengono ben saldi due pezzi di legname. Come da ciò si sia passati al nuovo significato non sapremmo dire, né probabilmente ha una notevole importanza. Di nostro vi aggiungiamo adesso quello che in italiano è il formulario o modulo e i maniaci dell’anglofagia imperante si ostinano a chiamare form in ogni sito o manuale d’informatica e di programmazione. Ne traiamo buon motivo dal significato di elemento costitutivo d’un insieme che si vuole organizzare.
PIEZZO (a. m.) Nel lessico giornalistico italiano il “pezzo” è il generico sinonimo di articolo, al quale Bruno Barilli volle aggiungere il napoletano pezzullo come scherzoso diminuitivo, nel senso dunque di articoletto breve.
Il termine partenopeo si caratterizza solo per il dittongo ié, nel quale si risolve quasi sempre la vocale e quando è posta innanzi ad almeno due consonanti, ma il suo campo semantico è del tutto identico a quello proprio nella lingua italiana.
PIPPA (a. m.) Nella nostra lingua il termine nomina l’oggetto per fumar tabacco e ch’è composto dal fornello dove lo si calca e gli si dà fuoco, dal cannello da cui si aspira e dal bocchino trattenuto in mezzo ai denti. A parere del D’Ascoli il raddoppiamento consonantico di pippa, rispetto all’italiano “pipa”, sarebbe un esito normale del napoletano, che di solito compensa la lunghezza vocalica presente nel termine latino originario. Sennonché è sfuggito al competente lessicografo che nell’antica Roma non vi erano pipe né tabacchi e dunque quel raddoppiamento testimonia forse di una provenienza dal francese pipe dove, precedendo una vocale evanescente, la /p/ è più sonora che non nel toscano “pipa”. A questa testimonianza offre maggior colore il fatto che comune è a Napoli e a Parigi quel secondo suo significato nel linguaggio metaforico della sessualità, dove il termine designa la fellatio, e non l’irrumazione come stranamente ancora il D’Ascoli registra, mentre l’Italia centro-settentrionale l’adopera eufemisticamente per dire la masturbazione. Più recentemente il termine sta pure a designare una lezione, un intervento o anche discorso, che si giudichi stucchevole, fumoso e lungo.
PUOSTO (a. m.) Chi l’ha detto che i napoletani sono faciloni e vanno per le spicce? Per fortuna che c’è il lessico a mostrare il suo contrario! Laddove la lingua italiana ha un solo termine per dire spazio libero o assegnato e circoscritto, o un incarico d’impiego o ufficio, o ancora un qualsivoglia luogo o sito, quella partenopea precisa nel dettaglio la diversità del puosto rispetto al posto. Il primo è bensì un delimitato tratto per la vendita di generi alimentari o adibito ad area di parcheggio per autoveicoli, con o senza autorizzazione delle autorità preposte (e anche quest’ultime, badate bene, hanno dunque in sé la logica del posto!), ma non ha nulla a che vedere con un posto. Quest’è parola che si usa, invece, per specificare un qualsiasi luogo, geografico o geometrico che sia, oppure come sinonimo esclusivo di un impiego. Certo, ambedue i termini derivano dal pònere latino, ma il napoletano si è voluto togliere lo sfizio di distinguere lo spazio che si occupa nella società tra quello conquistato in proprio, e sempre a rischio, e quello in cui si è stati messi, collocati da un “pre-posto”, vale a dire da qualcuno che ha il comando in quanto è messo innanzi. Da qui, con sfumatura fonetica e semantica, la diversità tra il puosto e il posto. Il fatto che i disoccupati in corteo per la città richiedano a voce o da striscioni un posto di lavoro lo attribuivate forse ad una buona conoscenza del toscano? Macché! Vi siete illusi. D’altronde a Napoli è ben nota e assai diffusa tutta la differenza che intercorre tra il lavoro e la fatica. Poi dicono il dialetto!
Per quanto ci riguarda confidiamo volentieri l’imbarazzo nel dover tradurre il web dalla lingua inglese. Gli italiani attenti solo al nuovo che avanza e innamorati delle famose i del programma equestre non hanno esitato un attimo e a pié fermo continuano a chiamarlo web come se niente fosse. Consapevoli che di un luogo si tratta, d’un semplice snodo nella trama della complessiva rete, noi abbiamo preferito dirlo puosto, collocandoci da soli e in piena dignità int’â rezza virtuale ’e tutt’ ’o munno.
PURÙSO/-ÓSA (a. m.) agg. Sono termini nell’uso dei parlanti e nondimeno assenti nella totalità dei dizionari. In tutto equivalenti agli aggettivi con i quali in italiano si designa la proprietà di corpi e materiali di aver spazi vuoti fra le molecole da cui sono composti. Così porosi sono il legno e il tufo e porosa è la nostra pelle, ma della porosità vi è pure allegoria. Nessuna autentica città è soltanto case, strade, monumenti. Una vera città è soprattutto ciò che in sé contiene di cultura, ciò che le fornisce il suo significato. Occorrono radici, senso storico, memorie. Solo così è possibile da capo reimmaginarle, reinventarle. Napoli ha dentro di sé una storia antica e al tempo stesso ha innanzi il compito europeo d’una dimensione tutta meridiana. Di una città che insieme sia la soglia e il porto di un ecumene mediterraneo, recuperando quella caratteristica di Napoli che Walter Benjamin seppe individuare definendola “città porosa”. Vale a dire una città che sia come una spugna e al tempo stesso, ricorrendo alla radice por-, da cui derivano sia il greco póros che il lat. porta e portus, non solo abbia dei pori, ma che proprio per questo sia passaggio, entrata, apertura, e dunque porta, porto, e anche opportunità e opportuna. Spugnosità che le deriva dall’essere costruita come su alveoli disposti variamente, quali sono nel suo sottosuolo cave e grotte da cui il tufo delle case è stato estratto. Vi è così un rapporto permanente tra ciò che viene edificato in superfice e fondamenta sotterranee, tra la Napoli solare e l’invisibile città catacombale. La roccia porosa come materia e madre da cui nascono le case e la cultura di una città che, pur sempre disperdendosi all’esterno e nell’esteriorità del momentaneo o del precario, continuamente cresce su sé stessa.
RAMMAGGIO (r. b.) Parola che si adopera ormai solo con la rotacizzazione del più classico ‘dammaggio’ e che designa nella lingua partenopea il danno patito o arrecato, sia nel senso materiale che morale. Per l’etimologia una superficiale ipotesi accredita il francese dommage per il suo identico significato, ma bisogna risalire, più verosimilmente, al termine del latino parlato damnajjum, a sua volta derivante da damnum con il suffisso -ajjum di carattere rustico di contro al classico –aeus, come avvenuto anche in toscano per scarafaggio da scarabeo. Nel termine damnajjum si è poi verificata dalle nostre parti la consueta assimilazione regressiva della ‘enne’ con l’antecedente ‘emme’ e il risultato fu ‘dammaggio’.
REZZA (a. m.) Se quella di internet è la rete internazionale in cui si è presi da notizie, scambi, novità, opinioni, modi nuovi di apprendere e produrre la cultura, il napoletano può chiamarla senza dubbio con il proprio sostantivo rezza. Fino a qualche tempo fa il termine indicava lo strumento a maglia per catturare pesci, uccelli e altri animali, o per recingere luoghi, raccogliere oggetti, ma in età moderna si è diffuso per significare anche l’insieme dei nodi di un sistema di trasporti e di comunicazioni, fino ad assumere il senso dello stare insieme per un fine condiviso.
RICUTTARO (r. b.) Il lenocinio è praticato da più di tre millenni ai bordi della società da delinquenti d’ogni risma. Verso il finire del XIX secolo i lenoni che a Napoli venivano arrestati erano assistiti, per le spese legali del processo e in quelle del superfluo nella vita carceraria, da una questua organizzata dai ‘colleghi’ sui proventi ricavati dalla prostituzione. Questa periodica colletta era chiamata ’a recòveta, la raccolta, e se da qui a ricotta il passo fu assai breve, da ricotta a ricuttaro è stato ancor più breve.
RIGGIOLA (a. m.) Nel 1450 Alfonso il Magnanimo, primo re della dinastia aragonese di Napoli, ebbe nostalgia delle maioliche che impreziosivano palazzi e cupole nella sua terra. Convocò pertanto a corte Juan al Murcì, direttore delle ceramiche di Manises a Valencia e gli conferì l’incarico d’istruire allievi nella fabbrica di rajoletes pintadas, quelle cioè che conosciamo come variopinte mattonelle maiolicate. Nacquero così da noi riggiole e riggiolari. Francesco D’Ascoli ricorda a tal proposito i termini rejuela e rejal, con cui il castigliano odierno nomina rispettivamente una piccola inferriata e una qualsiasi catasta o pila di mattoni. Con buona opportunità egli fa notare che riggiola è termine esclusivamente napoletano e non ha nulla da spartire con la “reggiola” dei toscani, di cui peraltro non vi è traccia in molti dizionari. Renato De Falco è del parere, invece, che il termine venga a noi per mutazione dal rubéola latino con il senso di “rossiccia”, ma la cosa non può convincere, perché la riggiola è all’origine prodotta con caratteristici, policromi disegni e solo in seguito la si è fabbricata in rosso con minor valore e costo. Si deve anche tener conto che l’arte stessa della maiolica ricava il proprio nome dal commercio attivo che se ne faceva nell’isola di Maiorica che divenne poi Maiorca. La sua provenienza dalle Baleari ci consente di fissarne l’etimo all’interno di termini quali l’arabo rahal e il suo equivalente ebraico ra‘a che hanno il senso del condurre e richiamano pertanto il greco orego che significa “dirigo in linea retta”, come pure il celtico rix e il latino rex, ovvero colui che guida, che dirige, fissa le regole e la riga. Dalla base arcaica corrispondente all’accadico re’û, rejûm, con il significato di re, e però originariamente di pastore, si apre innanzi a noi uno scenario di popoli in continuo movimento e che perciò cercavano una guida che sapesse scegliere la giusta direzione. La povera riggiola in sé comprende dunque tutta intera una sapienza antica, quella stessa che presiede alla scoperta della linea di definizione, che delimita lo spazio in cui muoversi, dove nascono e passano gli uomini e le loro storie, percorrendo angoli retti e diagonali. Quella ancora che li spinge sempre avanti, nell’ignoto e all’infinito, ma per poi tornare a casa.
SCANZÌA (a. m.) Così si dice a Napoli il palchetto o lo scaffale d’una libreria o anche un intero armadio a più ripiani. Il termine sembra provenire da un oscuro vocabolo veneziano scansìa, con il significato originario di banco, scrittoio o scrigno.
SCHIFEZZA (a. m.) Parola che in Italia giunse un po’ dovunque dal francese antico eschif e dal francone skiuhjan con il senso di schivare, eludere, sfuggire, prendere distanza. Da qui il traslato, divenuto prevalente, della ripugnanza, del disgusto e del disprezzo. Al plurale lo si adopera tuttora per designare azioni sessuali tra persone dello stesso genere da parte di chi le condanna con disprezzo.
SCIAMARRA/SCIAMARRO ( r. b. ) Termini omologhi con cui si designa uno strumento per lavori edili che si configura in una sorta di maneggevole piccozza o martello con uno dei cunei battenti affilato per consentire il taglio o lo spacco di mattoni e pietre dure. La sua versione più piccola e azionabile con una sola mano è detta sciamarrella , adoperata per incidere su pareti o per terra allo scopo di tracciarvi scanalature in cui inserire fili, tubi o altro. Curioso è l'accrescitivo sciamarrone , con il quale si abbandona l'edilizia per entrare nel campo semantico delle percosse. Esso designa, infatti, un violentissimo ceffone inferto a mano aperta dall'alto verso il basso contro il volto di un rivale e con la potenza di un colpo di sciamarro. Una semplicistica ipotesi ritiene che tali termini derivino dalla fusione delle parole ‘ascia' = ‘scure' + ‘marra' = ‘zappa', con deglutinazione della ‘a' iniziale di ‘ascia', passata alla funzione di 'a = articolo determinativo. Ma se accettabile è il richiamo all'ascia, per la sua funzione nei confronti delle pietre, lascia poi perplessi quella che dovrebbe svolgervi la zappa. Più probabile è l'origine dal francese antico chamail che indicava una sorta di martello.
SCIARDELLA (r. b.) Parola che sui dizionari non risulta in repertorio, ma che ancora oggi risuona in molte case con il significato di “ragazza inetta” o “casalinga inefficiente nei lavori domestici”. L’epiteto si assegna a chi si fa scappar di mano le stoviglie provocandone rottura o a chi lavi i pavimenti con poca acqua o spolveri sciattamente o riponga gli abiti in modo da trovarli gualciti. Potrebbe derivare come forma diminuitiva del termine sciaddea, adoperato in molte zone come sciardea, la cui origine è dal greco skedao che ha il senso di ‘sbadato’, ‘inconcludente’.
SCIUAZZA (r. b.) Peggiorativo del termine sciardella. Ha origine dalla lenizione della parola sciazza, ritenuto forse troppo duro, mediante l’introduzione di una efelchistica ‘u’, non essendo dissimili i significati delle due parole che hanno, infatti, entrambe il senso di “donna becera e sciattona”. Uguale anche l’etimo dal latino exaptus, ovvero ‘inadatta’, ‘sconveniente’.
SÈNTERE-SENTÌ (a. m.) Equivalenti solo in parte al “sentire” della lingua italiana che significa l’azione d’acquisire conoscenze mediante gli organi dei sensi. Ciò prova un più vicino apporto dal latino originario dove il verbo aveva come suo significato proprio l’ascoltare, e solo in seguito anche quello del provare varie sensazioni o sentimenti. A Napoli i due verbi sono indistintamente adoperati per l’azione dell’udito o per gli effetti dell’olfatto, ma non per quelli degli altri sensi.
SPÓGNA (a. m.) Sf. Nome di animali acquatici dell’ordine dei Porìferi e altresì del loro scheletro disseccato che costituisce un involucro poroso di fibre cornee morbide ed elastiche, capace di imbeversi di liquidi e di espellerli per compressione. I Porìferi sono invertebrati privi di cellule nervose e della bocca, con il corpo che si presenta come massa carnosa sostenuta da uno scheletro interno che può essere costituito da carbonato di calcio o da silice idrata o dalla sostanza organica detta spongina. Il termine deriva dal greco spoggós e dal latino spongia, entrambi ben calcati sulla base accadica sapaku con il significato di versare. Da notare come, a differenza dell’it., il nap. conservi intatta la vocale ‘o’ nella prima sillaba delle antiche voci mediterranee.
STRÒPPOLA (a. m.) Vanno con questo nome a Napoli fandonie, frottole, facezie, baggianate, poesiole senza senso, favole banali, filastrocche e tiritere. Siamo d’accordo col de Falco ad attribuirne l’origine alla strophé che nel teatro greco designava un particolare movimento del coro attorno all’orchestra, e rafforzato dal latino stropha nel significato con cui s’indicava furberia o scaltrezza proprie di un linguistico artificio.
VASTÀSO/-A (a. m.) 1. facchino. 2. persona rozza, volgare, triviale. Etim.: dal greco bastázo con il senso di “sostengo, reggo con le mani, porto con vigore”.
VÙSCIOLA/ÙSCIOLA (a. m.) 1. scatola di bosso nella quale si poneva un tempo l’ago magnetico indicante il settentrione; 2. seconda porta d’ingresso in chiese, caffè e teatri per potersi riparare dal vento e dal freddo; 3. cassetta per raccogliere elemosine, biglietti per sorteggio o lotterie e le schede d’una votazione; 4. involucro cilindrico con carica ed innesco per il lancio dei proiettili nelle armi da fuoco. Fras. "S'è mbriacata 'a vùsciola", o "s'è mbriacata 'a ùsciola": locuzioni napoletane traducibili alla lettera con "si è ubriacata la bùssola, è impazzita". Modi di dire per significare che si è persa la bussola, la cosa si è complicata, non ci si capisce più niente, non ci si orienta più, si è "scombussolati". Etim. Derivante dal lat. buxum, sia come pianta sempreverde di legno molto duro, sia come scatola di bosso, in italiano è voce attestata già nel IX secolo. Con il significato di strumento per la navigazione, la cui invenzione è attribuita al mitico Flavio Gioia di Amalfi o Positano nel 1302, il termine “bùssola” risale al XVI secolo e lo attestano gli scritti di Antonio Pigafetta del 1524. In napoletano è da notare il passaggio della /b/ in /v/, come in "bacio = vaso" e del /ss/ in /sc/, come in "basso = vascio". Da ultimo una forma popolare ha visto la caduta della fricativa labiodentale /v/, un fenomeno abbastanza regolare nel napoletano e da cui è facile ricostruire la parola originale.
Hanno collaborato:
A. M. (Amedeo Messina); C.P. (Claudio Pennino); R.B (Raffaele Bracale). |