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Probovirus del 15
dicembre 2003
Molto rumor per nulla
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Tra i cultori
e gli studiosi della lingua partenopea si sta parlando molto delle
dichiarazioni attribuite a Teresa Armato, assessora alla cultura
della Regione Campania, e a Nicola De Blasi, docente di Storia della
lingua italiana alla “Federico II”, riportate da chi
li avrebbe intervistati sull’iniziativa del bi-lenguismo
armonico (sic!), promossa dall’Accademia Napoletana e
patrocinata dal Comune di Napoli e dall’Ascom «pe ’a tutera d’ ’o nnapulitano (sic!)».
Poiché si è quasi udito uno sguainar di spade nelle
parole con cui Napoli è accorsa alla difesa dell’eccelso
suo linguaggio è giusto intervenire, e non per gusto di paciere
non richiesto, ma per amor del vero e odio del molto rumor per nulla.
Inutilmente, infatti, sono scesi in campo paladini di valore come
il dottor Luigi Imperatore, il professor Francesco D’Ascoli,
l’avvocato Renato De Falco, il senatore Antonio Iervolino,
il presidente dell’ordine dei giornalisti della Campania Ermanno
Corsi, l’editore Gaetano Colonnese, il segretario regionale
della Cgil Paolo Giugliano.
Ci dispiace, cari amici del napoletano e nostri, ma vi siete mossi
a protezione d’una beffa, come capitò ai vicini di
quel pastorello che si divertiva a urlare «al lupo! al lupo!»
ed essi a perdifiato accorrevano, trovando solo pecore pascenti
e il monellaccio a sganasciarsi dalle risa. Dei due lupi cattivi
non vi sono tracce, se non nelle parole dell’Armato e di De
Blasi, riportate da Massimiliano Canzanella sul pascone virtuale
del suo sito. Ma siccome quelle attribuite al professor De Blasi
sono un falso, come questi ha dimostrato nella sua “precisazione”
che quel sito ha poi dovuto pubblicare per obbligo di legge, siamo
tutti autorizzati a credere inautentiche anche quelle dell’Armato.
Per quanto ne so personalmente l’assessora può davvero
averle pronunciate, perché così la pensa e con perfetta
coerenza sfugge a ogni convegno sul napoletano al quale venga come
merita invitata, ma da qui a farle dire, come traduce Canzanella
con citazione indebita, che «chi parla napulitano è comme Bossi» (sic!) ci corre molta più acqua del
Po e del Garigliano messi insieme. E infatti è una menzogna,
avendo ella affermato, invece, che «[...] difendere il dialetto "sic et simpliciter" ci metterebbe sul medesimo
piano di un Bossi». Giudizio certamente ben diverso da ciò
che ha inteso e poi diffuso l’Accademia.
E però, miei cari amici, come prendere per lupa chi dà
del Bossi non soltanto ai pastorelli, bensì a tutti quelli
che accorrono a difesa del gran gregge dei dialetti, della lingua
partenopea e dei suoi locutori? Non v’accorgete che l’assessora
regionale alla cultura sta facendo strame dello stesso pascolo di
cui dovrebbe avere cura? Non capite quanto abbia in fastidio pecore
ed arieti che pur elessero a pastore regionale il presidente Bassolino?
Se la grande maggioranza dei Campani ama il belar nativo ella si
affretta a farsi carico del gregge dei clonati dai linguaggi della
globalizzazione e delle culture contaminanti. Ma non abbiatene timore.
Come ogni buon aiutante del pastore ella ci guida e ci protegge.
E con sapiente strategia. Non certo come, a suo parere, facciamo
tutti noi: “sic et simpliciter”. Non lo sapevate?
I pastori belano in latino, ma un caprone della Ciociaria mi ha
detto che significa “così e semplicemente”. E
noi, pecore ed arieti, di sicuro non sapremmo difendere i belati
nostri, se non con semplicità e nel modo in cui beliamo a
voce e per iscritto, in poesia e nelle canzoni, a teatro e nei romanzi,
in casa e nelle strade. E – perché non dirlo all’assessora
Armato? – perfino in sogno.
Inoltre, non ve l’abbiate a male, perché delle sue folies bergères non c’è davvero un
gran bisogno, dal momento che dell’iniziativa del bi-lenguismo
armonico (sic!) ben pochi si sono accorti, se non chi l’ha
organizzata e l’assessore al Comune di Napoli Raffaele Tecce
che l’ha patrocinata. Non si capisce, infatti, che senso abbia
l’affiggere in bottega un adesivo che proclama tronfiamente «qui parliamo anche napoletano» quando poi
non corrisponde al vero. Vi contraddice l’Accademia stessa
quando, per esempio, chiama con l’inglese “forum”,
o latino ch’esso sia, la raccolta d’interviste telefoniche
o telematiche per raccogliere pareri sulle “uscite”
dell’Armato e di De Blasi. Oppure allorché in un bar
fornito del bilinguistico e armonico adesivo, a un buon amico che
chiedeva in modi assai cortesi: «addó stà
’a pruvasa?», la cassiera ha prontamente replicato
nel suo miglior toscano che al banco non si offriva nulla in prova.
La cosa grave non è questa. Brandire asce di guerra per combattere
opinioni è sempre stata una battaglia in un bicchiere d’acqua.
Mi sembra grave, invece, che le istituzioni diano patenti di napoletanità
a “filopatridi” fasulli, perché a Napoli si è visto ogni genere di “trastula” e di “pacco”,
ma un’assoluta novità è l’imbroglio della
lingua con il timbro del Comune.
Amici del napoletano e miei, sono del parere che bisogna indulgere
a opinioni come quella espressa da Teresa Armato, dove, si capisce,
con tal nome si designa non la donna, quanto il personaggio. Consulenti
e segretari non le avranno preparata l’opportuna replica al
quesito? Non si è posta mai il problema dei diritti di un
popolo alla propria lingua? Ritorno del rimosso nel fantasma edipico
d’un padre che imponeva il “parlar bene”? Politico
espediente per cui dare del Bossi immobilizza pittime e avversari?
E potrei elencare altri possibili motivi di una fenomenologia che,
bisognerà pur dirlo, è assai diffusa oggi tra gli
uomini e le donne di potere. In essa gli elettori facilmente vi
riflettono il ritratto della propria preminenza, ma ciò che
maggiormente suscita interesse verso questi personaggi dei “palazzi”
è la capacità di attraversare i più diversi
campi dei saperi e di venirne fuori intatti, non aperti al dubbio,
non vogliosi d’imparare e approfondire. Che potrà mai
essere la lingua dei nativi in tempi di globalizzazione coatta dalla
destra e da sinistra? Un patrimonio storico la cui obsolescenza
merita un museo. Perseveremo nello scriverla e parlarla? Prima o
poi ci attende forse una riserva e di tutti noi non resterà
che l’ultimo dei Mohicani. Una postrema voce nel deserto che
faranno del pianeta azzurro. Ed è così che ci vogliono:
apocalittici o integrati.
Del resto, che volete? Non sono questi gli avversari nostri. Non è da loro che ci può venire tolta la parola di salvezza.
Chi ci è nemico è in mezzo a noi, cultori dei dialetti
e dei linguaggi popolari. Quelli che ci sono avversi non conoscono
ciò che dicono di amare e di sapere. E questa pare a me seconda
e maggior beffa. Usano una lingua che non solo ignorano, ma di cui
non vogliono imparare nulla. Sia chiaro. Fin qui nulla di male.
L’analfabetismo volontario non è considerato un vizio
e non può essere un reato. Il grave è che, non avendone
nessuna, s’inventano una cattedra – concreta o virtuale
che sia, qui non importa – dalla quale spacciano per lingua
napoletana un coacervo di scempiaggini con cui ogni giorno attentano
a grammatica, sintassi e ortografia. Con la loro foia di scrivere
una lingua inesistente e la pretesa d’insegnarla un po’
dovunque – nelle scuole, nelle facoltà universitarie,
nei negozi e dagli elaboratori nelle case – si avvicinano
alle parole solo per farle sanguinare e chiunque ami Napoli e si
costringa a leggerli o ascoltarli deve continuamente suturare le
ferite. Essi scambiano il diritto alla parola per un diritto a violentarla
e a farne anche commercio. Bisognerebbe che qualcuno li fermasse.
La tutela vera del napoletano e la difesa dell’utente ingenuo
impongono attenzioni critiche e pubbliche denunce. Ed è per
questo che v’invito con affetto e stima a più utili
rumori.
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