<%@LANGUAGE="JAVASCRIPT" CODEPAGE="1252"%>
crediti
contatti
'o puosto... il sito napoletano
presentazione
 
diritto
cronache
eventi
editoriale
 
  archivio probovirus
  - 30 marzo 2007
  - 07 gennaio 2004
  - 15 dicembre 2003
  - 24 settembre 2003
  - 14 luglio 2003
  - 30 giugno 2003


Probovirus del 15 dicembre 2003

 

Molto rumor per nulla

Tra i cultori e gli studiosi della lingua partenopea si sta parlando molto delle dichiarazioni attribuite a Teresa Armato, assessora alla cultura della Regione Campania, e a Nicola De Blasi, docente di Storia della lingua italiana alla “Federico II”, riportate da chi li avrebbe intervistati sull’iniziativa del bi-lenguismo armonico (sic!), promossa dall’Accademia Napoletana e patrocinata dal Comune di Napoli e dall’Ascom «pe ’a tutera d’ ’o nnapulitano (sic!)». Poiché si è quasi udito uno sguainar di spade nelle parole con cui Napoli è accorsa alla difesa dell’eccelso suo linguaggio è giusto intervenire, e non per gusto di paciere non richiesto, ma per amor del vero e odio del molto rumor per nulla. Inutilmente, infatti, sono scesi in campo paladini di valore come il dottor Luigi Imperatore, il professor Francesco D’Ascoli, l’avvocato Renato De Falco, il senatore Antonio Iervolino, il presidente dell’ordine dei giornalisti della Campania Ermanno Corsi, l’editore Gaetano Colonnese, il segretario regionale della Cgil Paolo Giugliano.
Ci dispiace, cari amici del napoletano e nostri, ma vi siete mossi a protezione d’una beffa, come capitò ai vicini di quel pastorello che si divertiva a urlare «al lupo! al lupo!» ed essi a perdifiato accorrevano, trovando solo pecore pascenti e il monellaccio a sganasciarsi dalle risa. Dei due lupi cattivi non vi sono tracce, se non nelle parole dell’Armato e di De Blasi, riportate da Massimiliano Canzanella sul pascone virtuale del suo sito. Ma siccome quelle attribuite al professor De Blasi sono un falso, come questi ha dimostrato nella sua “precisazione” che quel sito ha poi dovuto pubblicare per obbligo di legge, siamo tutti autorizzati a credere inautentiche anche quelle dell’Armato. Per quanto ne so personalmente l’assessora può davvero averle pronunciate, perché così la pensa e con perfetta coerenza sfugge a ogni convegno sul napoletano al quale venga come merita invitata, ma da qui a farle dire, come traduce Canzanella con citazione indebita, che «chi parla napulitano è comme Bossi» (sic!) ci corre molta più acqua del Po e del Garigliano messi insieme. E infatti è una menzogna, avendo ella affermato, invece, che «[...] difendere il dialetto "sic et simpliciter" ci metterebbe sul medesimo piano di un Bossi». Giudizio certamente ben diverso da ciò che ha inteso e poi diffuso l’Accademia.
E però, miei cari amici, come prendere per lupa chi dà del Bossi non soltanto ai pastorelli, bensì a tutti quelli che accorrono a difesa del gran gregge dei dialetti, della lingua partenopea e dei suoi locutori? Non v’accorgete che l’assessora regionale alla cultura sta facendo strame dello stesso pascolo di cui dovrebbe avere cura? Non capite quanto abbia in fastidio pecore ed arieti che pur elessero a pastore regionale il presidente Bassolino? Se la grande maggioranza dei Campani ama il belar nativo ella si affretta a farsi carico del gregge dei clonati dai linguaggi della globalizzazione e delle culture contaminanti. Ma non abbiatene timore. Come ogni buon aiutante del pastore ella ci guida e ci protegge. E con sapiente strategia. Non certo come, a suo parere, facciamo tutti noi: “sic et simpliciter”. Non lo sapevate? I pastori belano in latino, ma un caprone della Ciociaria mi ha detto che significa “così e semplicemente”. E noi, pecore ed arieti, di sicuro non sapremmo difendere i belati nostri, se non con semplicità e nel modo in cui beliamo a voce e per iscritto, in poesia e nelle canzoni, a teatro e nei romanzi, in casa e nelle strade. E – perché non dirlo all’assessora Armato? – perfino in sogno.
Inoltre, non ve l’abbiate a male, perché delle sue folies bergères non c’è davvero un gran bisogno, dal momento che dell’iniziativa del bi-lenguismo armonico (sic!) ben pochi si sono accorti, se non chi l’ha organizzata e l’assessore al Comune di Napoli Raffaele Tecce che l’ha patrocinata. Non si capisce, infatti, che senso abbia l’affiggere in bottega un adesivo che proclama tronfiamente «qui parliamo anche napoletano» quando poi non corrisponde al vero. Vi contraddice l’Accademia stessa quando, per esempio, chiama con l’inglese “forum”, o latino ch’esso sia, la raccolta d’interviste telefoniche o telematiche per raccogliere pareri sulle “uscite” dell’Armato e di De Blasi. Oppure allorché in un bar fornito del bilinguistico e armonico adesivo, a un buon amico che chiedeva in modi assai cortesi: «addó stà ’a pruvasa?», la cassiera ha prontamente replicato nel suo miglior toscano che al banco non si offriva nulla in prova. La cosa grave non è questa. Brandire asce di guerra per combattere opinioni è sempre stata una battaglia in un bicchiere d’acqua. Mi sembra grave, invece, che le istituzioni diano patenti di napoletanità a “filopatridi” fasulli, perché a Napoli si è visto ogni genere di “trastula” e di “pacco”, ma un’assoluta novità è l’imbroglio della lingua con il timbro del Comune.
Amici del napoletano e miei, sono del parere che bisogna indulgere a opinioni come quella espressa da Teresa Armato, dove, si capisce, con tal nome si designa non la donna, quanto il personaggio. Consulenti e segretari non le avranno preparata l’opportuna replica al quesito? Non si è posta mai il problema dei diritti di un popolo alla propria lingua? Ritorno del rimosso nel fantasma edipico d’un padre che imponeva il “parlar bene”? Politico espediente per cui dare del Bossi immobilizza pittime e avversari? E potrei elencare altri possibili motivi di una fenomenologia che, bisognerà pur dirlo, è assai diffusa oggi tra gli uomini e le donne di potere. In essa gli elettori facilmente vi riflettono il ritratto della propria preminenza, ma ciò che maggiormente suscita interesse verso questi personaggi dei “palazzi” è la capacità di attraversare i più diversi campi dei saperi e di venirne fuori intatti, non aperti al dubbio, non vogliosi d’imparare e approfondire. Che potrà mai essere la lingua dei nativi in tempi di globalizzazione coatta dalla destra e da sinistra? Un patrimonio storico la cui obsolescenza merita un museo. Perseveremo nello scriverla e parlarla? Prima o poi ci attende forse una riserva e di tutti noi non resterà che l’ultimo dei Mohicani. Una postrema voce nel deserto che faranno del pianeta azzurro. Ed è così che ci vogliono: apocalittici o integrati.
Del resto, che volete? Non sono questi gli avversari nostri. Non è da loro che ci può venire tolta la parola di salvezza. Chi ci è nemico è in mezzo a noi, cultori dei dialetti e dei linguaggi popolari. Quelli che ci sono avversi non conoscono ciò che dicono di amare e di sapere. E questa pare a me seconda e maggior beffa. Usano una lingua che non solo ignorano, ma di cui non vogliono imparare nulla. Sia chiaro. Fin qui nulla di male. L’analfabetismo volontario non è considerato un vizio e non può essere un reato. Il grave è che, non avendone nessuna, s’inventano una cattedra – concreta o virtuale che sia, qui non importa – dalla quale spacciano per lingua napoletana un coacervo di scempiaggini con cui ogni giorno attentano a grammatica, sintassi e ortografia. Con la loro foia di scrivere una lingua inesistente e la pretesa d’insegnarla un po’ dovunque – nelle scuole, nelle facoltà universitarie, nei negozi e dagli elaboratori nelle case – si avvicinano alle parole solo per farle sanguinare e chiunque ami Napoli e si costringa a leggerli o ascoltarli deve continuamente suturare le ferite. Essi scambiano il diritto alla parola per un diritto a violentarla e a farne anche commercio. Bisognerebbe che qualcuno li fermasse. La tutela vera del napoletano e la difesa dell’utente ingenuo impongono attenzioni critiche e pubbliche denunce. Ed è per questo che v’invito con affetto e stima a più utili rumori.