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Probovirus
- 14 luglio 2003
Segnaletiche
maniacali
Credo che ognuno possa scrivere ciò
che vuole sulle merci che pone in vendita in un pubblico esercizio.
Perfino se mal scritto? Direi di sì, anche se la scrittura
vuol essere in napoletano, ma ad una condizione: che il produttore/venditore
non millanti per “verace” lingua di Napoli ciò
che appone su bavette, magliettine, tazze e roba varia. Resta tutt’al
più un problema d’ignoranza tra lui e gli acquirenti.
Siamo tutti liberi d’avere le nostre personali fisime, e se
poi ci si proclama affetti da una “napolimania” cui
non corrisponde affatto un sentimento, una passione, una cultura,
per la civiltà partenopea e il suo linguaggio, beh! ritengo
che si stia nel gioco dei “privati vizi pubbliche virtù”
che adesso più che mai vanno alla grande.
Le autorità preposte alla
tutela del commercio nel rapporto tra la produzione e la clientela
sprovveduta avrebbero anche il compito di proteggere una lingua
violentata in ogni modo e poi spacciata come autentica e di tutti?
Siamo ancora qui nel maniacale o non, piuttosto, nell’imperseguibile
frode linguistica in danno degli utenti e, a maggior ragione, d’una
città intera e del suo millenario bene culturale? So bene
che la domanda può apparire oziosa ma, se la lingua appartiene
a tutti quelli che la parlano, non sarà il caso che ogni
locutore abbia diritto alla sua difesa? Soprattutto se quell’uso
illetterato che ne vien fatto è a fin di lucro, come valore
aggiunto ad un commercio impreziosito da un linguaggio ch’è
tuttora un patrimonio collettivo.
Chi ama Napoli ha per molto tempo
perdonato i tanti errori ortografici di Enrico Durazzo, analfabeta
della lingua sua nativa come molti altri napoletani ai quali n’è
impedito l’insegnamento. Ma costoro, consapevoli di non saperla
scrivere, almeno non si sono mai messi a pubblicarne frasi, modi
di dire o quant’altro. Figuriamoci ad apporre, col pubblico
consenso, proprie segnaletiche stradali che dovrebbero per giunta
essere d’aiuto a quei turisti in vena di raggiungere da piazza
Fuga “i luoghi artistici e storici più importanti del
Vomero”, e cioè la Floridiana, San Martino o Castel
Sant’Elmo! Qui non si tratta dei graffiti personali che ci
parlano dai muri in una lingua strapazzata. E non è più
nemmeno la mania che si consacra come dono degli dèi, per
dirla con gli antichi, o come un soggettivo privilegio. La mania
diviene, infatti, forma patologica assai grave quando si fa di gruppo
e di potere.
Che i Verdi, quanto meno nella
persona di Valerio Ceva, ritengano il Durazzo un replicante di Galiani,
già può essere un problema. Se poi ci si mettono anche
tutti i nostri quotidiani ad avallarne un’ignoranza che tracima
da Toledo fino alla Certosa, allora il fatto ci preoccupa parecchio.
Non è più possibile tacere quando le sue scritte sono
giudicate, come fa il Corriere del Mezzogiorno dell’11 luglio
scorso a pag. 5, “segnali turistici in dialetto napoletano”.
Perché, lo si dovrà pur dire, di napoletano in quei
segnali c’è ben poco. L’articolista Lu. Mar.,
inoltre, afferma che le indicazioni sono in “slang”,
e ciò riporterebbe il tutto a verità, se il termine
non fosse scelto male. E infatti esso, nell’inglese originario
come in italiano, può significare solo gergo o varietà
della lingua nazionale. In ambedue i casi, dunque, non si adatta
a definire ciò che sono, e restano, impuniti e perduranti
strafalcioni durazziani.
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