Se posso rivolgermi
al professor Nicola De Blasi con un critico e
amichevole rispetto, ora che gli si attribuiscono espressioni
che nemmeno ha mai pensato, proverò a fargli notare come
la buona sorte gli abbia offerto un’ottima occasione che
ha mancato di afferrare. Ha certamente fatto bene a precisare
il giusto senso delle sue parole, contro l’uso che ne ha
fatto con estrapolazione indebita, e falsandone la lettera ed
il senso, il dottor Massimiliano Canzanella sulle pagine dell’accademico
sito virtuale e non virtuoso che dirige. Avrebbe potuto profittarne,
a mio parere, per trovare un momentaneo suo rifugio in quello
che un gran poeta ha definito «le vert paradis des amours
enfantines» e, ricordando l’armonioso suono e
il senso delle sillabe native, interrogarsi sui motivi veri della
loro condizione preagonica annunciata.
Quella che De Blasi giustamente chiama «doverosa precisazione»
è, invece, una difesa rigorosa del docente e del suo ufficio.
In essa parla il valido linguista, lo studioso competente d’italiano.
Come forse esige il proprio ruolo, egli si esprime da filologo,
non già da “logofilo”, e riesce nel dominio
della lingua che non sembra dominarlo, non è sovrana dei
suoi pensieri. La sua è la risposta urbana e colta a chi
ha stravolto il suo pensiero, ma è anche quella dello scienziato
che guarda e giudica l’oggetto delle sue ricerche come fosse
cosa inerte, quasi corpo morto. Sul napoletano, dialetto o lingua
che lo si voglia definire, l’ottimo linguista posa il proprio
sguardo solo sul problema dei suoi studi, secondo un metodo che
rende ogni linguaggio neutro, oggettivo, senza sangue, senza voce,
senza vita.
Nasce da qui la sua sentenza perentoria, con cui ne liquida l’attuale
decadenza.
Irretito nei concetti della sua scienza, càpita al linguista
di smarrire il senso della lingua come luogo comune, in cui s’incontrano
i defunti e i vivi, le memorie antiche e i sentimenti quotidiani.
Egli “è parlato” da un discorso impersonale
che sancisce l’indicibile e il dicibile, l’opinabile
e il certo, il patologico e il normale. Il discorso del potere
e quello della scienza condividono l’a priori con cui tracciano
i confini della personale esperienza, i campi di legittimità
che la confermano in parola autorizzata. Per il resto può
ben esservi silenzio e morte. Ecco perché l’epistemologia
linguistica decreta freddamente la realtà valetudinaria
d’una lingua o d’un dialetto. Sul piano personale
egli sa bene che i linguaggi muoiono se sono abbandonati a loro
stessi, ma non muove ciglio e con distacco da necroscopo preordina
la sindone che copra il moribondo.
La linguistica ufficiale si costringe a credere, ricorda a noi
De Blasi, che «[...] i parlanti e le loro esigenze, così
come le situazioni concrete in cui essi agiscono e comunicano,
devono suscitare non solo interesse, ma anche rispetto, anche
perché in ogni caso sono i parlanti che determinano l'uso
delle lingue e ne segnano i destini». Tuttavia egli non
può fingersi che l’uso e il destino del napoletano,
come d’ogni lingua, si producono nella storia e sono determinati,
dunque, dai rapporti di potere che pervengono a politiche assegnate.
Questa presunta democrazia linguistica è drogata, perché
corrisponde non già a una libera scelta di tutti e di ciascuno,
bensì alle regole imposte da un mercato in cui prevale
il monopolio culturale dello Stato sulla formazione scolastica
e universitaria, sui titoli di studio e sull’accesso alla
società civile e al mondo del lavoro.
Il professor De Blasi crede nella libertà delle coscienze
e sogna un liberismo dei linguaggi quando, in realtà, non
ci si appropria d’una lingua con un referendum o per una
sorta di partecipazione mistica uniforme e universale, bensì
per condizioni economiche e sociali. Obbligatoria in tutte le
occasioni, unica in ogni spazio di legittimità, la lingua
dello Stato è imposta come norma teorica con cui gli usi
linguistici diversi o differenti sono valutati. Di conseguenza
la sanzione giuridica dei titoli di studio e degli accessi alla
mobilità sociale esclude le varianti anomale prodotte dagli
usi regionali, dalle diversità di etnia e di classe, dalla
differenza di genere, dalla soggettività dei significati.
L’estinzione d’una lingua non è un fatto naturale,
ma un processo storico innescato come strategia di sopravvivenza,
per cui un’altra la sostituisce nella totalità della
sua sfera funzionale e la fa morire perché non viene più
trasmessa alle generazioni successive.
Quella della lingua nazionale è una fictio juris che mistifica
il processo di unità linguistica occultando le ragioni
e i modi dell’unificazione politica dell’Italia che
condussero l’insieme dei soggetti locutori all’obbligo
scolastico del fiorentino ufficializzato, ad una norma sovradialettale
frutto di conquista armata e non di scelta culturale, imposta
senz’alcun rispetto per le realtà storiche e sociali,
ritenendo d’altra parte di poter distruggere le basi “naturali”
in cui le lingue hanno radici che non smettono di dar germogli
nei millenni. Contrariamente al “destino” dei molteplici
linguaggi regionali, abbandonati alla sola tradizione orale e
a un’ideologia di emarginazione della “volgarità”
dialettale, il fiorentino ha beneficiato delle condizioni necessarie
alla sua imposizione come unica lingua ufficiale, il cui solo
uso conferiva autorità ad autori, uomini di legge e istituzioni.
D’altronde ancora adesso, e nonostante la Costituzione riconosca
l’eguaglianza dei cittadini prescindendo dalla lingua, non
vi è esame, scolastico o di laurea ch’esso sia, sostenibile
in linguaggio regionale.
Nel ragionamento di De Blasi vi è però contraddizione.
Da un lato egli abbandona volentieri ad una sorta di darwinismo
sociale l’uso e il destino delle lingue, competizione come
si sa poco sportiva perché vi sopravvive sempre chi ha
potere e non chi è bravo, ma dall’altro afferma che
«[...] nell'attuale realtà italiana esistono numerose
persone che parlano esclusivamente il dialetto e hanno una conoscenza
molto limitata dell'italiano parlato e ancor più limitata
(o assente) dell'italiano scritto; coloro che parlano esclusivamente
il dialetto sono piuttosto numerosi nella realtà napoletana
e ancor più numerosi sono quelli che non riescono a comunicare
in modo adeguato né italiano parlato, né tanto meno
in italiano scritto». Ebbene, queste “numerose persone”
– c’è qualcuno che le stima in non meno di
sette milioni in tutta Italia e in un milione e mezzo nella sola
Campania – non sono, a loro volta, «[...] parlanti
che determinano l'uso delle lingue e ne segnano i destini»?
Più di centoquarant’anni d’obbligo scolastico
all’insegna di un “logocratico” italiano sono
stati insufficienti ad alfabetizzare la totalità dei cittadini.
Né i settant’anni della radio e i cinquanta della
televisione son riusciti a far passare quello che Giosuè
Carducci definiva il “manzonismo degli stenterelli”
dall’empireo delle politiche astrazioni al senso vero d’una
lingua che identifichi il paese e non soltanto l’egemonia
borghese e il ceto degli intellettuali. Lo stesso De Blasi ci
ricorda che «[...] secondo il censimento del 1991, circa
il 46% degli italiani è privo di titolo di studio o è
in possesso della sola licenza elementare, cioè è
dotato di un basso livello di istruzione», sennonché
egli trae da queste cifre una fiducia insospettata nella perseveranza.
Questa disfatta culturale non l’addebita a ministri o ministeri,
non se la prende coi docenti poco ligi alla consegna di alfabetizzare
ad ogni costo, né mette sotto accusa quelle facoltà
di lettere che insigniscono di laurea oscitanti italianisti.
In realtà, secondo i dati dell’ultima indagine Istat
disponibile, il 13% della popolazione è dialettofono esclusivo
e il restante 87% dichiara di saper parlare in italiano, anche
se solo il 38% afferma di adoperarlo sempre e il 49% ammette di
usare, a seconda delle circostanze, tanto l’italiano che
il dialetto. Anche a voler prescindere da norme costituzionali
e dai diritti linguistici consacrati dalle carte internazionali,
non sarebbe giusto che gli analfabeti di due lingue imparassero
almeno a lèggere e scrivere la “propria” lingua?
Non si potrebbe favorire l’educazione linguistica mediante
una didattica contrastiva che partisse dal dialetto? Se il bilinguismo
è per davvero fonte di sviluppo cognitivo, perché
deprivarne alunni dialettofoni, proibendo loro l’uso “colto”
del linguaggio nativo? Non fu forse un linguista di qualità
come Graziadio Isaia Ascoli a proporre, più di cent’anni
or sono inascoltato, il bilinguismo in ogni scuola come scelta
politica e culturale? E non fu forse la borghesia settentrionale
a lui contemporanea a soffocarne la realizzazione?
I risultati del monolinguismo coattivo di Stato sono sotto gli
occhi di tutti. Le cifre stanno a segnalare una disfatta in ogni
campo di battaglia culturale. Basta ragionare sulla vendita dei
libri o dei giornali per ogni singolo abitante. Sugli strafalcioni
di pronuncia, lessico e sintassi che si ascoltano dal video e
dal ceto dirigente del paese. Sull’irruzione dell’angloamericano
in ogni sfera dei saperi e della società civile. Tutto
questo merita attenzione e non arroccamenti alla difesa disperata
della lingua nazionale. Dova sta scritto che i dialetti e l’italiano
debbano vivere come separati in casa o divorziare? Non potrebbero
convivere con reciproco rispetto e pari opportunità d’insegnamento
e produzione culturale? E d’altra parte, se ciò avviene
già in altre nazioni e addirittura per obbligo di legge
in sei regioni dell’Italia, perché mai non può
accadere anche a Napoli e in Campania?
Il medesimo De Blasi incorre in una simpatica autorete, quando
scrive che il dialettofono esclusivo vive «nell'impossibilità
di leggere un'opera letteraria in dialetto, per il semplice motivo
che è di fatto escluso da qualsiasi manifestazione di cultura
scritta». Sicuro. Ma chi gliel’ha insegnato mai a
leggere e a scrivere il dialetto in cui si esprime a meraviglia?
Non è un soggetto di diritti, tra cui quello di esprimersi
nella lingua dei suoi avi? E vuoi vedere che gli viene il gusto
di leggere anche in lingua nazionale? Non a caso il professor
De Blasi adopera il “di fatto escluso”, perché
sa bene che il “diritto” non glielo può togliere
nessuno. Solo che lo Stato, la Regione o chi sa chi, gli vieta
di goderne. Un diritto negato, dunque, quello di tuffarsi nella
produzione letteraria dei linguaggi regionali. Autodidattica officina
di talenti del “fai da te”, ai quali non si è
data mai una scuola.
Il risultato è che accanto a dialettofoni assennati crescono
coloro che fanno di ogni erba un fascio, confondendo il napoletano
con l’insieme dei linguaggi regionali, o che si ergono alla
sua difesa arrecandogli un più grave oltraggio. E di sicuro,
infatti, quella di proporsi di scrivere e parlar partenopeo senza
saperne molto è una maggiore offesa che non quella di ridurre
il proprio impegno in «[...] qualificate indagini scientifiche
[...]» soltanto. E bene fa De Blasi a darci in dono una
lettura che raccoglie quanta sapida ironia gorgogli in espressioni
di cortese deferenza verso gli accademici che ignorano ciò
che vorrebbero prendere in tutela e ai quali il suo sarcastico
giudizio si rivolge con un «[...] hanno dottamente espresso
il proprio punto di vista» e un «dotti interlocutori
che hanno a cuore altri problemi». Me songo arrecriato,
prufessó! Cumplimente e mprufecate p’ati cciente
primm’ ’e ll’anno!