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Probovirus del 7 gennaio 2004

 

Gli accademici veri e quelli finti

Se posso rivolgermi al professor Nicola De Blasi con un critico e amichevole rispetto, ora che gli si attribuiscono espressioni che nemmeno ha mai pensato, proverò a fargli notare come la buona sorte gli abbia offerto un’ottima occasione che ha mancato di afferrare. Ha certamente fatto bene a precisare il giusto senso delle sue parole, contro l’uso che ne ha fatto con estrapolazione indebita, e falsandone la lettera ed il senso, il dottor Massimiliano Canzanella sulle pagine dell’accademico sito virtuale e non virtuoso che dirige. Avrebbe potuto profittarne, a mio parere, per trovare un momentaneo suo rifugio in quello che un gran poeta ha definito «le vert paradis des amours enfantines» e, ricordando l’armonioso suono e il senso delle sillabe native, interrogarsi sui motivi veri della loro condizione preagonica annunciata.
Quella che De Blasi giustamente chiama «doverosa precisazione» è, invece, una difesa rigorosa del docente e del suo ufficio. In essa parla il valido linguista, lo studioso competente d’italiano. Come forse esige il proprio ruolo, egli si esprime da filologo, non già da “logofilo”, e riesce nel dominio della lingua che non sembra dominarlo, non è sovrana dei suoi pensieri. La sua è la risposta urbana e colta a chi ha stravolto il suo pensiero, ma è anche quella dello scienziato che guarda e giudica l’oggetto delle sue ricerche come fosse cosa inerte, quasi corpo morto. Sul napoletano, dialetto o lingua che lo si voglia definire, l’ottimo linguista posa il proprio sguardo solo sul problema dei suoi studi, secondo un metodo che rende ogni linguaggio neutro, oggettivo, senza sangue, senza voce, senza vita.
Nasce da qui la sua sentenza perentoria, con cui ne liquida l’attuale decadenza.
Irretito nei concetti della sua scienza, càpita al linguista di smarrire il senso della lingua come luogo comune, in cui s’incontrano i defunti e i vivi, le memorie antiche e i sentimenti quotidiani. Egli “è parlato” da un discorso impersonale che sancisce l’indicibile e il dicibile, l’opinabile e il certo, il patologico e il normale. Il discorso del potere e quello della scienza condividono l’a priori con cui tracciano i confini della personale esperienza, i campi di legittimità che la confermano in parola autorizzata. Per il resto può ben esservi silenzio e morte. Ecco perché l’epistemologia linguistica decreta freddamente la realtà valetudinaria d’una lingua o d’un dialetto. Sul piano personale egli sa bene che i linguaggi muoiono se sono abbandonati a loro stessi, ma non muove ciglio e con distacco da necroscopo preordina la sindone che copra il moribondo.
La linguistica ufficiale si costringe a credere, ricorda a noi De Blasi, che «[...] i parlanti e le loro esigenze, così come le situazioni concrete in cui essi agiscono e comunicano, devono suscitare non solo interesse, ma anche rispetto, anche perché in ogni caso sono i parlanti che determinano l'uso delle lingue e ne segnano i destini». Tuttavia egli non può fingersi che l’uso e il destino del napoletano, come d’ogni lingua, si producono nella storia e sono determinati, dunque, dai rapporti di potere che pervengono a politiche assegnate. Questa presunta democrazia linguistica è drogata, perché corrisponde non già a una libera scelta di tutti e di ciascuno, bensì alle regole imposte da un mercato in cui prevale il monopolio culturale dello Stato sulla formazione scolastica e universitaria, sui titoli di studio e sull’accesso alla società civile e al mondo del lavoro.
Il professor De Blasi crede nella libertà delle coscienze e sogna un liberismo dei linguaggi quando, in realtà, non ci si appropria d’una lingua con un referendum o per una sorta di partecipazione mistica uniforme e universale, bensì per condizioni economiche e sociali. Obbligatoria in tutte le occasioni, unica in ogni spazio di legittimità, la lingua dello Stato è imposta come norma teorica con cui gli usi linguistici diversi o differenti sono valutati. Di conseguenza la sanzione giuridica dei titoli di studio e degli accessi alla mobilità sociale esclude le varianti anomale prodotte dagli usi regionali, dalle diversità di etnia e di classe, dalla differenza di genere, dalla soggettività dei significati. L’estinzione d’una lingua non è un fatto naturale, ma un processo storico innescato come strategia di sopravvivenza, per cui un’altra la sostituisce nella totalità della sua sfera funzionale e la fa morire perché non viene più trasmessa alle generazioni successive.
Quella della lingua nazionale è una fictio juris che mistifica il processo di unità linguistica occultando le ragioni e i modi dell’unificazione politica dell’Italia che condussero l’insieme dei soggetti locutori all’obbligo scolastico del fiorentino ufficializzato, ad una norma sovradialettale frutto di conquista armata e non di scelta culturale, imposta senz’alcun rispetto per le realtà storiche e sociali, ritenendo d’altra parte di poter distruggere le basi “naturali” in cui le lingue hanno radici che non smettono di dar germogli nei millenni. Contrariamente al “destino” dei molteplici linguaggi regionali, abbandonati alla sola tradizione orale e a un’ideologia di emarginazione della “volgarità” dialettale, il fiorentino ha beneficiato delle condizioni necessarie alla sua imposizione come unica lingua ufficiale, il cui solo uso conferiva autorità ad autori, uomini di legge e istituzioni. D’altronde ancora adesso, e nonostante la Costituzione riconosca l’eguaglianza dei cittadini prescindendo dalla lingua, non vi è esame, scolastico o di laurea ch’esso sia, sostenibile in linguaggio regionale.
Nel ragionamento di De Blasi vi è però contraddizione. Da un lato egli abbandona volentieri ad una sorta di darwinismo sociale l’uso e il destino delle lingue, competizione come si sa poco sportiva perché vi sopravvive sempre chi ha potere e non chi è bravo, ma dall’altro afferma che «[...] nell'attuale realtà italiana esistono numerose persone che parlano esclusivamente il dialetto e hanno una conoscenza molto limitata dell'italiano parlato e ancor più limitata (o assente) dell'italiano scritto; coloro che parlano esclusivamente il dialetto sono piuttosto numerosi nella realtà napoletana e ancor più numerosi sono quelli che non riescono a comunicare in modo adeguato né italiano parlato, né tanto meno in italiano scritto». Ebbene, queste “numerose persone” – c’è qualcuno che le stima in non meno di sette milioni in tutta Italia e in un milione e mezzo nella sola Campania – non sono, a loro volta, «[...] parlanti che determinano l'uso delle lingue e ne segnano i destini»?
Più di centoquarant’anni d’obbligo scolastico all’insegna di un “logocratico” italiano sono stati insufficienti ad alfabetizzare la totalità dei cittadini. Né i settant’anni della radio e i cinquanta della televisione son riusciti a far passare quello che Giosuè Carducci definiva il “manzonismo degli stenterelli” dall’empireo delle politiche astrazioni al senso vero d’una lingua che identifichi il paese e non soltanto l’egemonia borghese e il ceto degli intellettuali. Lo stesso De Blasi ci ricorda che «[...] secondo il censimento del 1991, circa il 46% degli italiani è privo di titolo di studio o è in possesso della sola licenza elementare, cioè è dotato di un basso livello di istruzione», sennonché egli trae da queste cifre una fiducia insospettata nella perseveranza. Questa disfatta culturale non l’addebita a ministri o ministeri, non se la prende coi docenti poco ligi alla consegna di alfabetizzare ad ogni costo, né mette sotto accusa quelle facoltà di lettere che insigniscono di laurea oscitanti italianisti.
In realtà, secondo i dati dell’ultima indagine Istat disponibile, il 13% della popolazione è dialettofono esclusivo e il restante 87% dichiara di saper parlare in italiano, anche se solo il 38% afferma di adoperarlo sempre e il 49% ammette di usare, a seconda delle circostanze, tanto l’italiano che il dialetto. Anche a voler prescindere da norme costituzionali e dai diritti linguistici consacrati dalle carte internazionali, non sarebbe giusto che gli analfabeti di due lingue imparassero almeno a lèggere e scrivere la “propria” lingua? Non si potrebbe favorire l’educazione linguistica mediante una didattica contrastiva che partisse dal dialetto? Se il bilinguismo è per davvero fonte di sviluppo cognitivo, perché deprivarne alunni dialettofoni, proibendo loro l’uso “colto” del linguaggio nativo? Non fu forse un linguista di qualità come Graziadio Isaia Ascoli a proporre, più di cent’anni or sono inascoltato, il bilinguismo in ogni scuola come scelta politica e culturale? E non fu forse la borghesia settentrionale a lui contemporanea a soffocarne la realizzazione?
I risultati del monolinguismo coattivo di Stato sono sotto gli occhi di tutti. Le cifre stanno a segnalare una disfatta in ogni campo di battaglia culturale. Basta ragionare sulla vendita dei libri o dei giornali per ogni singolo abitante. Sugli strafalcioni di pronuncia, lessico e sintassi che si ascoltano dal video e dal ceto dirigente del paese. Sull’irruzione dell’angloamericano in ogni sfera dei saperi e della società civile. Tutto questo merita attenzione e non arroccamenti alla difesa disperata della lingua nazionale. Dova sta scritto che i dialetti e l’italiano debbano vivere come separati in casa o divorziare? Non potrebbero convivere con reciproco rispetto e pari opportunità d’insegnamento e produzione culturale? E d’altra parte, se ciò avviene già in altre nazioni e addirittura per obbligo di legge in sei regioni dell’Italia, perché mai non può accadere anche a Napoli e in Campania?
Il medesimo De Blasi incorre in una simpatica autorete, quando scrive che il dialettofono esclusivo vive «nell'impossibilità di leggere un'opera letteraria in dialetto, per il semplice motivo che è di fatto escluso da qualsiasi manifestazione di cultura scritta». Sicuro. Ma chi gliel’ha insegnato mai a leggere e a scrivere il dialetto in cui si esprime a meraviglia? Non è un soggetto di diritti, tra cui quello di esprimersi nella lingua dei suoi avi? E vuoi vedere che gli viene il gusto di leggere anche in lingua nazionale? Non a caso il professor De Blasi adopera il “di fatto escluso”, perché sa bene che il “diritto” non glielo può togliere nessuno. Solo che lo Stato, la Regione o chi sa chi, gli vieta di goderne. Un diritto negato, dunque, quello di tuffarsi nella produzione letteraria dei linguaggi regionali. Autodidattica officina di talenti del “fai da te”, ai quali non si è data mai una scuola.
Il risultato è che accanto a dialettofoni assennati crescono coloro che fanno di ogni erba un fascio, confondendo il napoletano con l’insieme dei linguaggi regionali, o che si ergono alla sua difesa arrecandogli un più grave oltraggio. E di sicuro, infatti, quella di proporsi di scrivere e parlar partenopeo senza saperne molto è una maggiore offesa che non quella di ridurre il proprio impegno in «[...] qualificate indagini scientifiche [...]» soltanto. E bene fa De Blasi a darci in dono una lettura che raccoglie quanta sapida ironia gorgogli in espressioni di cortese deferenza verso gli accademici che ignorano ciò che vorrebbero prendere in tutela e ai quali il suo sarcastico giudizio si rivolge con un «[...] hanno dottamente espresso il proprio punto di vista» e un «dotti interlocutori che hanno a cuore altri problemi». Me songo arrecriato, prufessó! Cumplimente e mprufecate p’ati cciente primm’ ’e ll’anno!