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TOPONOMASTICA
a cura di Amedeo Messina
TOPONIMI CAMPANI
Campania (a. m.) L’odierno
toponimo della regione venne adoperato per la prima volta presso
i Greci dallo Pseudo Scilace nel IV secolo a. C. e presso i Romani
da Varrone tre secoli dopo. Diodoro Siculo c’informa che l’antico
nome greco era quello di pedion phlegraion e cioè
di “pianura flegrea”. Ancora Campi flegrei
sono per Polibio i territori pianeggianti posti su tutt’e
due le sponde del Volturno. Dalla Campania antica erano esclusi
i territori del Sannio dal Matese all’area beneventana, l’Irpinia,
la vasta superficie che va Salerno ai monti Picentini e alla piana
del Sele e, inoltre, il Cilento, i monti Alburni e il Vallo di Diano.
Per Campania s’intendeva, in altri termini, quella che si
disse dai Romani Laburia e in età borbonica “Terra
di lavoro”. Dal punto di vista della geografia politica la
Campania assunse il 2 gennaio 1927 dei confini che stravolgono l’assetto
naturale e quello storico, cedendo al Lazio il territorio che si
estende al di là del Garigliano fino a Formia e Cassino e
acquisendo a sud-est un’area di origine lucana. Circa l’origine
del nome si è creduto di accostarlo alla città di
Capua, ma la cosa non convince, sia perché quest’ultima
non ha mai avuto una “m” nel suo toponimo, sia perché
documentato fin dall’antichità è il rapporto
tra pedion, campus e Campania. Se l’etimologia
della Campania è dunque dal campus dei Latini occorre
ricordare che si tratta di parola derivante dall’accadico
kappum, lingua in cui essa designava il “palmo della
mano” e dunque una superficie piana. Ciò significa
che il termine veniva adoperato per indicare dell’attuale
regione solo la parte pianeggiante e sembra che in tal senso poi
deponga anche l’appellativo di Campania felix, ricordando
il suo significato originario, che non è quello dei virgiliani
laeta arva, corrispondenti ai nostri “campi elisi”.
Il greco elysion, infatti, ha il senso della beatitudine,
non quello della feracità terrestre richiamata, invece, dall’originaria
radice fe presente nel verbo fero con il senso
del portare, dell’offrire, del produrre, e da cui derivano
parole come fertile, fecondo, femmina, feto, fieno e, appunto, quell’antica
felicitas così diversa dalla nostra. Né si
dimentichi Feronia, la dea delle fonti ricordata da Servio come
“ninfa madre della Campania”.
Chiatamone (a.
m.) Attuale nome delle antiche grotte Platamonie, naturali
cavità nelle pendici tufacee del monte Echia,
un tempo a strapiombo sul mare, ove per secoli i pescatori ricoverarono
le loro barche. Platamonion è in greco il lido,
la spiaggia, l’arenile ed altresì la grotta erosa dai
moti delle onde. In molte di queste grotte vi erano sorgenti d’acqua
sulfurea, adibite in epoca romana a terme dove si bagnavano i patrizi
e le matrone. Esse furono anche sede di culti dedicati alle Sirene
e a Mitra per il rito del battesimo lustrale.
Cusano Mutri - Gli storici son d’accordo nel far corrispondere all’attuale Cusano Mutri il sito dell’antica Cossa dei Sanniti, poi distrutta, come si può lèggere nelle pagine di Tito Livio (XXIV, 22), dai legionari di Quinto Fabio Massimo nel 202 a. C. Sull’origine del nome grava, dunque, l’ipoteca di una tale equivalenza, per cui il toponimo di Cusano troverebbe il proprio senso originario in quanto forma proveniente dalla precedente Cossa. Anche a voler prendere per buona tale ipotesi, perché attualmente non mi pare ci sia modo di smentirla, resta vero ch’essa altro non fa se non spostare di bel nuovo la ricerca etimologica dall’odierna Cusano al nome dell’antica Cossa.
Su questo sostantivo si è fantasticata una supposta origine da un termine che significherebbe ‘coppa’, e ciò a motivo della configurazione topografica del sito con lo stesso simbolo ideografico della consonante ‘Q’, rappresentante in tale caso della chiostra di montagne aventi come loro sbocco unico la gola di Lavello. Sennonché, tra le ventuno lettere formanti l’arcaico alfabeto sannitico vi era la kappa, ma non certo la ‘Q’, segno consonantico in uso, invece, tra gli Etruschi di Campania già nel VI-V secolo a. C., e quindi non s’intende come mai potesse farsi simbolo di Cossa.
Occorre aggiungere che questa della coppa è un’ipotesi senz’alcun riscontro. Essa ha voluto scorgere un rapporto con il segno della ‘Q’, così da risalire al nome fenicio della lettera ‘koppa’ dell’alfabeto greco arcaico, con la quale era designato il suono dell’occlusiva uvulare sorda, cui corrisponde l’omonima ‘qop’ dell’alfabeto ebraico, così detta perché vi s’intravedeva una scimmietta stilizzata. Da qui al tardo latino cuppa, da cui viene l’italiano ‘coppa’,il salto non soltanto è fantasioso, ma del tutto inutile a comprendere l’origine della denominazione di Cusano, proprio perché di gran lunga successivo a quello ben più antico del toponimo in esame.
Del resto, se davvero si volesse insistere su ‘Cossa’ come simbolo ideografico del nesso tra la conca montanara in cui la cittadina è posta e questa cuppa sopra richiamata, noi ci troveremmo innanzi a una indecifrabile variante dei termini con essa imparentati e tutti appartenenti al senso proprio della nuca, più che della valle. Per farsene un’idea qui basterà chiamare in causa parole come nel dantesco fiorentino: «Sovra le spalle, dietro dalla coppa» (Inf.,XXV, 22), nella ‘cupola’ italiana, oppure nel tedesco ‘kopf’, che significa a sua volta testa. Tre termini del tutto sufficienti, a mio modesto avviso, a far notare che il rapporto coppa/nuca si risolve in sintesi indivisibile tra concavo e convesso e non soltanto nell’immagine fornita dalla forma cava della coppa.
Testimonianza decisiva in tale direzione, e dunque tale da impedire il nesso presupposto tra la valle e la latina cuppa, è l’uso che a Napoli si fa di ‘coppa’ in quanto termine che origina allo stesso modo dei tre precedenti. Col senso dell’utensile per bere è di uso assai recente e raro, ma con quello di più in alto, sovrastante, superiore, esso si trova, come sostantivo, come avverbio e come preposizione, fin dagli esordi letterari della lingua napoletana. (D’altra parte si confronti per l’etimo di ‘coppa’ l’apposita voce sul nostro stesso sito in Parole ’e Napule). Ma c’è di più, perché, a far notare l’importanza in ‘coppa’ della irriducibilità di sintesi tra l’alto e il basso, il fuori e il dentro, nella lingua di Napoli troviamo altre parole.
Contro l’ipotesi del nesso del toponimo di Cossa con la cuppa dei latini vi è un altro tipo di problema. Poiché non c’è traccia di una ‘Cussa’, che postulerebbe inoltre spiegazioni sulla sua derivazione dalla ‘cuppa’, si dà per garantita una origine italiota del suo nome. Sennonché dal punto di vista glottologico anche questa congettura mostra di non stare in piedi. Qui basterà ricordare che le primitive quattro vocali della lingua osca (a, e, i, u) diventarono col tempo sei, diffondendosi la pronuncia sia di una seconda í come sonorità intermedia tra la i e la e che della ú con suono misto tra o e u. Non si capisce, allora, come si potrebbe proiettare in tempi più remoti la nascita di Cossa, invece di una Cussa, quale noi dovremmo attenderci a ragione.
Bisogna precisare che Cusano è un toponimo, e bensì antroponimo, diffuso in tutta Italia e all’estero, sia pure con varianti morfologiche e fonetiche le quali ad esso riconducono anche a un semplice raffronto. A voler restare nella sola penisola italiana con lo stesso nome c’è Cusano Milanino, poi un Cusano che è frazione del comune di Zoppola in provincia di Pordenone e, inoltre, nella provincia di Pescara, l’antico feudo di Cusanum a Turrivalignani e le località Cusano nei comuni di Roccamorice e Abbateggio. Tuttavia la lista si farebbe assai più lunga, se vi si aggiungessero i toponimi in cui suona la medesima radice ‘cos-’, ‘cus-’ o la denominazione ‘chius-’ a essa affine.
A nessuno di essi tuttavia potrebbe riferirsi l’altra stravagante congettura su Cusano, per la quale il nome suo deriverebbe dal latino clausus col senso di uno spazio chiuso proprio di un supposto aggettivale clausanus, motivato con il fatto di essere quel sito circondato da montagne. Sappiamo in molti troppo bene che radici quali cla- e cel- rivelano in latino una semantica del chiuso e del nascosto. Basterà citare qui l’avverbio clam con cui si denotava appunto il modo dell’occulto. Ma se chiusa può essere una valle in mezzo ai monti, non c’è verso di chiamare così pure un sito che su di un monte svetta. E inoltre vi contrasta il fatto che tutti i termini derivanti da un latino con radice cla- nella lingua italiana si risolvono con chi-, come da clausus il chiuso, e dunque non c’è modo di venire a capo di un Cusano proveniente dall’ipotetico clausanus, da cui, invece, origina Chiusano.
Un’altra congettura, questa volta concentrata sul suffisso in -anus, indicante nel latino una origine prediale o l’appartenenza a un gruppo o a una persona, fa discendere il toponimo Cusano da un supposto nome personale Cusius, di cui non vi è traccia in alcun documento pervenuto. Essa fu avanzata nel 1874 dal linguista piemontese Giovanni Flechia, che la divulgò in un proprio articolo dal titolo: “Nomi locali del Napolitano derivati da gentilizi italici”, (pubblicato prima negli “Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, 10, pp. 79-134 e poi, in ristampa anastatica, dall’editore Forni di Bologna).
Tale ipotesi poi venne avvalorata dal linguista Wilhelm Schulze nel suo testo Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, pubblicato a Berlino nel 1904 in prima edizione e ristampato poi nel 1933 e nel 1966.Al contrario io penso più certo che, per fare un solo esempio, sia il toponimo di Cusio, località della val Brembana con il proprio Cusius, l’attuale lago di Orta, ad aver dato origine al nome di Cusiani per i suoi abitanti. Inoltre son molteplici i toponimi a noi noti come Cos, Coos, Cosa o Cusa, e tutti ben presenti in civiltà mediterranee ed europee, vivaci molto prima del sorgere di quella greca e dei Romani.
Anche in questo caso, io credo, può bastare un solo esempio che ci è d’aiuto per tentare di risolvere l’enigma dell’origine dei nomi di città come Cusano e affini: la città etrusca Cosa, ricordata da Virgilio (Eneide, X, 168) e Plinio (St. nat., III, 51), ubicata sul roccioso promontorio che si affaccia sul Tirreno, ove oggi sorge il sito di Ansedonia, frazione di Orbetello in provincia di Grosseto. Il suo nome antico, conosciuto pure come Cusi o Cusia, ci restituisce il senso dell’accadico kussu, con il significato di ‘sede del comando’, rinvenibile nella sua posizione strategica e nell’impianto urbano di fortezza. Le caratteristiche cioè con cui ci è nota anche Kues, la piccola città sulla Mosella, non lontana da Treviri, dove nacque il filosofo del XV secolo che proprio a tal motivo prese il nome di Cusano.
E proprio questo, a mio parere, è il significato originario custodito nell’attuale nome di Cusano Mutri. D’altra parte noi sappiamo che non solo il greco Cóos ha il senso di ‘argine’, ‘scarpata’, ‘terrapieno’, ‘contrafforte’, ma lo stesso fatto che i Romani abbiano deciso di distruggere la Cusano antica al termine di una lunga guerra, è indizio ben fondato che in quel tempo essa fosse un centro pedemontano ben fortificato. Probabilmente sede di un meddíss, se non dello stesso meddíss tiúvtíks,il supremo magistrato dei Sanniti Pentri, ovvero d’una delle tribù in cui era diviso il popolo degli Oschi, anche se nessun documento pervenuto attesta un meddíss collegato ai Pentri e se la loro capitale, per così dire, fu Boviano e per un breve tempo Aquilonia.
In quanto a Mutri come specificativo di Cusano occorre riferire che tal nome venne aggiunto quando fu emanato, sotto il governo di Luigi Carlo Farini e il ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi, il R. D. del 22 gennaio 1863, n. 1140. Con tal decreto si chiedeva ai Comuni che con l’unificazione dell’Italia vennero a trovarsi in condizioni di omonimia di deliberare un epiteto geografico che li qualificasse in modo distintivo. Il consiglio comunale di Cusano del Sannio optò per l’appellativo Mutri, traendolo dall’oronimo della sua maggior vetta che, con i suoi m. 1823, è la terza della Campania, dopo il Miletto di m. 2050 e il Gallinola di m. 1923, montagne tutte del medesimo massiccio meridionale del Matese.
Per quanto attiene all’oronimo di Mutri sul suo significato si è d’accordo nello stabilirlo così come si è consolidato fino ad oggi anche nel napoletano con il lessema mutria. Esso ha il senso della fisionomia boriosa, arcigna, burbera, severa, dura, corrucciata, con la quale invero si presenta il monte. Sull’etimo, al contrario, si oscilla tra un rapporto col moderno greco moutro = ceffo, che però gli stessi Greci dicono essere di origine italiana, e il suo essere la forma guasta di mutilus latino, ovvero di persona o cosa che sia priva di una parte dell’intero corpo. Sennonché anche di quest’ultimo lessema noi manchiamo di notizie e le sue origini son dette ignote, per cui ricorrervi ci fa precipitare solo in una mise en abîme.
Né risolve la questione il fatto che si affermi a Pietraroia esserci un toponimo Mutiliglié per indicare un luogo che a Cusano è detto Mutricchioi. Per prima cosa perché anche qui il “mutilo” non c’entra nulla e, quindi, proprio niente può spiegare, e poi perché il riferimento è una fandonia che, se forse non è bella, certo non è buona. Il Dizionario del dialetto di Pietraroia ad opera del nostro collaboratore Piero Bello, pubblicato infatti sul nostro stesso sito web, riferisce solo del lessema Mùtegliu, con il significato del medesimo oronimo di Mutri come monte “dai molti gioghi”. E questo, com’è facile dedurre, è solo un appellativo aggiunto, a mio parere posteriore di gran lunga all’originario epiteto del monte.
Una ipotesi più valida sull’etimo di Mutri è, invece, il richiamare l’osco tiuris, lidio turra,greco túrsis,latino turris, la cui semantica è del tutto affine, come ci ha insegnato l’instancabile lavoro di Giovanni Semerano, con l’accadico du-u-ru, ovvero ‘fortezza’, ‘torre’. A ciò si aggiunga che in quest’ultimo linguaggio la parola mû sta sempre per le acque, al plurale, e così possiamo porre in congettura un originario Mûtiuris col senso proprio di “torre delle sorgenti”. E di esse, infatti il Mutri è ancora oggi abbondante. Con ciò fornisco un ulteriore contributo alla ricerca di presenze culturali accadiche tra i popoli italioti e gli splendenti luoghi che ne accolsero la lingua, la fatica e le speranze di una vita finalmente libera da guerre e da miserie. (a. m.)
Echia (a. m.)
Promontorio attualmente noto come Monte di Dio
o Pizzofalcone e che deriva forse il proprio arcaico
nome, altrimenti incomprensibile, da Enki, la divinità
sumerica dell’acqua fluente, della saggezza e delle arti divinatorie,
cui vollero fornire un culto i protagonisti pelasgici del primo
insediamento urbano della città partenopea. Non convincente
appare l’ascendenza dalla statua di Afrodite Euploia, la divinità
greca della buona navigazione ricordata da Stazio nei suoi versi,
che sarebbe poi corrotta in Echia tramite la regolare mutazione
del gruppo consonantico PL in CHI nella lingua napoletana. Anche
considerando, infatti, il passaggio da Euploia alla forma latina
“Euplea” non si capirebbe la scomparsa delle vocali
intermedie /u/ ed /e/.
Megaride (a.
m.) Prima ancora fu Megalia, isolotto oggi noto solo con il
nome del Castel dell’Ovo che ne occupa la
quasi intera superficie. Si è pensato a lungo a un topos
ellenico e però, una volta detto questo, nulla si è
chiarito. In lingua greca, infatti, Megaris avrebbe un
senso derivato da mégaron, “casa signorile,
sala di adunanza”, o addirittura da Mégaira,
la terribile Megera, e l’isolotto non si presta al
primo caso, in quanto a lungo vi attraccarono le navi dei mercanti,
né al secondo, perché non merita di stare sotto il
segno di una Erinni. Si è portati dunque a credere a parola
grecizzata da un imparentamento con il babilonese makallu,
ovvero “approdo”, termine che almeno ci restituisce
la sua primaria destinazione d’uso. Nel IX secolo a. C. fu
qui che si stanziarono i coloni e i marinai di Rodi con le loro
prime case e impiantandovi uno scalo per le imbarcazioni. Nel I
secolo a. C. divenne proprietà di Lucio Licino Lucullo che
vi fece costruire una superba domus circondata da giardini
e da edifici che assunsero il nome di “castro luculliano”.
Vi vennero piantati, per la prima volta in Europa, peschi e ciliegi,
oltre a installarvi uno straordinario acquario con migliaia di specie
di pesci e quella che per la romanità fu la prima grande
biblioteca. In seguito, tra il 45 e il 29 a. C., fu la residenza
di Virgilio che qui scrisse le Bucoliche e quattro libri
delle Georgiche, chiedendo poi di esservi sepolto. Successivamente,
trasformato in carcere, il “castro” tenne prigioniero
fino alla sua morte nel 476 d. C. Romolo Augustolo, l’ultimo
romano imperatore già sconfitto da Odoacre. Nel 492 un gruppo
di monaci ungheresi dell’ordine di san Basilio ottenne di
fondare sull’isolotto, nel frattempo detto del san Salvatore,
un monastero intitolato ai martiri Nicandro e Marciano. La leggenda
di santa Patrizia afferma che in seguito essi,
aggregandosi al monastero di san Sebastiano, lo
lasciarono alle monache compagne della vergine che vi ebbe sepoltura.
Nella storia della patrona di Napoli si è visto implicito
un rapporto con il mito di Partenope, la vergine del mare che alle
sue rive muore e vi ha sepolcro. Nel 902 i monaci benedettini vi
abbandonarono un convento minacciato di continuo da incursioni saracene.
Il monastero costituì il primario nucleo di quello che sarebbe
divenuto il Castel dell’Ovo.
Napoli (a. m.)
L’antica Neapolis non fu che riduzione ellenica di
un nome di alcuni secoli più antico, riconducibile agli strati
semitici presenti nelle accadiche parole namba’u ali,
“città della grande sorgente”, quelle stesse
risonanti nei fonemi di città come Nablus in Palestina e
Nabuel in Tunisia. Né di questo ci si può meravigliare,
se non si persevera nel vezzo di volere ad ogni costo avere origini
nel mondo “classico” dei Greci e ci si adagia, invece,
nella precedente realtà storica di genti semitiche emigranti
dalla Mesopotamia e che dalle coste anatoliche percorsero le vie
del mare per venire a vivere o smerciare in terre occidentali su
cui impressero la loro lingua. Così ridicolo risulta continuare
a credere che in qualcuno possa sorgere l’idea di farne una
“città nuova”, come andavano affermando alcuni
storici, rispetto a quella precedente, la presunta Palaeopolis
ubicata sopra il monte Echia. Riesce assai difficile
pensare che si dia il nome di “città vecchia”
a un nuovo nucleo abitativo nel momento che ci si mette mano. Soprattutto
quando noi sappiamo l’abitudine dei Greci di plasmare i nomi
a loro incomprensibili con termini che nella loro lingua avessero
comunque un senso, non diversamente dall’azione denominativa
di chi, molti secoli dopo, a propria volta da Napoli emigrò
e attribuì un nuovo senso ai toponimi stranieri. Insomma
Namba’u ali fu Neapolis come Brooklyn diventò
ben presto Brucculino e tuttavia, se ciò giustifica
il buon senso di coloni ed emigranti, non assolve poi le colpe di
studiosi che dovrebbero cercare fatti e interpretarli.
Partenope (a.
m.) Parola grecizzata da una base originaria in tutto corrispondente
all’accadico burtu-nabi’u, “fonte zampillante”,
e che si riferiva alla sorgente che dal monte Echia scendeva verso
l’isolotto di Megalia o Megaride come pure
poi si disse. Fu dunque questo il nome di Partenope sirena, come
ninfa della fonte e lì sepolta come narra la leggenda riferita
da Lutazio Catulo e Strabone. Ed è ben questo il motivo per
cui Napoli e Partenope furono in antico e sono ancora adesso due
distinti nomi che designano la stessa città che dispensava
un tempo acqua fluente ai suoi abitanti e ai marinai.
Sebeto (a. m.)
Antico fiume di Napoli sorgente dalle pendici del monte Somma
e che, arricchendosi di rivoli affluenti da Capodimonte
e dai colli Aminei, scorreva adagiandosi in un
letto tra valloni oggi colmati da via Foria, piazza
Cavour, via Pessina, Monteoliveto
e via Medina, per poi sfociare nel mare prospiciente
piazza Municipio. Il suo nome è ricordato
su monete del V e IV secolo a. C. oltre che dai versi di Virgilio,
Stazio e Columella. L’abbondanza delle sue acque indusse le
autorità greche e poi quelle romane a canalizzarle in quell’acquedotto
della Bolla che Guglielmo Melisurgo definì
nel 1889 «l’opera più antica e meglio conservata
dell’antichità napoletana». Eventi geologici
e vulcanici, tra cui la stessa eruzione del Vesuvio del 79 d. C.,
portarono il fiume a scomparire in territorio urbano per poi farsi
strada, nettamente impoverito, attraverso le paludi della Napoli
orientale fino alla nuova foce sotto il ponte della Maddalena
dove attualmente, per ripetere parole di Amedeo Maiuri, ha preso
«un nome di espiazione e penitenza». Non si dimentichi,
volendo ragionare sull’antico corso del fiume, che in epoca
romana il fondo valle era di ben 20 metri sottostante all’attuale
piazza Cavour e di 16 metri in piazza Dante.
Molte sono state le proposte etimologiche avanzate e molto spesso
esilaranti. Nel 1853 Bernardo Quaranta, per esempio, andò
a pescare il verbo greco sebo per offrire il senso d’impetuoso.
Ugualmente non credibile è l’ipotesi avanzata nel 1902
da Ludovico de la Ville sur Yllon che, pur correggendo quella precedente,
ricordando come sebo significhi anche “onorare con
un culto”, non dà conto di quali onori possa mai trattarsi
nel dare un nome a un fiume. Giulio Minervini nel 1854 fece risalire,
invece, l’idronimo al verbo greco sepo che ha il
senso del “lasciar marcire”, con ciò facendo
il paio con quanti pensano, com’è nel caso di Palaeopolis,
che si possa dare un nome a qualche cosa dando per scontata la sua
triste fine. Molto più sensate furono di certo le proposte
di Antonio Vetrano che nel 1767 l’accostò a un idronimo
fenicio riconoscibile nel palestinese Sabb’at con
il significato di “fonte degli orti”, e quella di Désiré
Rochette che nel 1854 lo ritenne un nome indigeno adottato dai coloni
greci coi caratteri della propria lingua. Il nome greco di Sepeithos
è infatti più vicino all’originale accadico
da cui deriva: Sepu’ed, ovvero “l’onda
che irriga”, e tali termini dovettero presiedere alla parola
con la quale quelli che fondarono Napoli chiamarono il loro fiume,
e ciò ben prima dei coloni provenienti dalla Grecia.
Sirene (a. m.)
Le figure e i miti riguardanti le sirene hanno origini anatoliche
e fenicie. La parola greca Seiren ha doppie origini semitiche
perché la base Seir- corrisponde all’accadico
seru con il significato di dorsale, roccia, scoglio, cui
s’intrecciano il sumerico si-ir, l’accadico
sarahu, l’ugaritico sr, l’ebraico
sir, l’aramaico sar, tutti verbi che designano
il cantare. Non trova alcun riscontro l’ipotesi di O. Gruppe
circa un etimo dal greco seira che, significando “fune”,
indicherebbe le Sirene come “legatrici”, “vincolanti”,
e ciò per effetto del loro canto. La stessa terminazione
in –en, -enos rinvia ad un’originaria
forma di plurale con la desinenza corrispondente a quella sumerica
–an o all’accadica –anu, -ani.
I caratteri precipui sono appunto l’ibrido corpo per metà
di donna e per metà di uccello, il loro canto melodioso,
seducente e insieme deleterio, oltre alla sapienza delle cose che
furono, che sono e che saranno. Si dice che sarebbero stati marinai
cretesi e rodii a trasferire in Magna Grecia il loro culto ed ecco
che compaiono sulle tombe etrusche e si ricorda pure che fu Syros
il nome di un’isola di fronte all’Acarnania da dove
provenivano i Teleboi, il popolo pelasgico che avrebbe colonizzato
Lipari, Capri, Napoli e Sorrento.
Sirenuse si chiamarono in antico gli isolotti rocciosi oggi noti
come li Galli, forse per richiamare il loro antico aspetto
ornitomorfo, e che occhieggiano dal largo Positano,
non distanti da Sorrento dove un tempo ci fu il
tempio dedicato al culto delle Sirene. Il greco Syrenussai,
da cui il termine deriva, ha il senso di “posto delle Sirene”,
in quanto il suffisso –ussai, di chiara origine anatolica,
designa la caratteristica di un luogo. Delle tre sirene della Magna
Grecia che ci sono note Ligea viveva nel mare innanzi a Terina (nei
pressi dell’odierna santa Eufemia), Leucosia in quello prospiciente
il capo Posidonio (l’attuale punta Licosa non lontana da Paestum),
e Partenope nel golfo di Napoli con la cui città si è
poi identificata. E qui, racconta il mito, ella sarebbe morta e
avrebbe ricevuto sepoltura. In quanto al luogo esatto, c’è
chi dice si trovasse sul monte Echia, chi alla
foce del Sebeto, chi lo pose a Caponapoli,
chi a Megaride, chi nel luogo dove sorge adesso
la chiesa di santa Lucia, chi sull’isolotto noto con il nome
di san Leonardo e sede fino all’Ottocento
di un monastero, all’altezza della Rotonda Diaz,
poi scomparso nei lavori di ristrutturazione del lungomare. A sua
volta la roccia su cui si eleva il palazzo Donn’Anna
è sempre stato noto come “la Sirena”. Partenope
è onorata a Napoli da due fontane. In quella detta di Spina
Corona, nota come funtana r’ ’e zzizze, attualmente
nel Museo di san Martino e un tempo in via Guacci Nobile, ove adesso
vi è una copia del 1925 peraltro danneggiata, la sua statua
è alata e posta innanzi al profilo binato del Vesuvio. Una
lapide ricorda che “dum Vesevi Siren incendia mulcet”,
ovvero ella ammansisce i fuochi del vulcano, e infatti l’acqua
sgorga dai due seni riversandosi su due monti. L’immagine
ha notevoli riscontri con un’altra statua proveniente dal
cimitero ateniese del Dipylon e sembra assai più antica del
complesso in cui è inserita, risalente all’eruzione
del 1139. Nel centro di piazza Sannazaro, invece, di Partenope si
celebra il ricordo con una fontana, opera di Pasquale Buccino, che
dapprima era situata in piazza Garibaldi. La Sirena si erge a seni
nudi e con il braccio verso il cielo attorniata da un intrico di
conchiglie, di delfini e mostri marini.
Sorrento (a.
m.) Nome ricondotto all’omerico Surie o al greco
Suraion. La forma latina Syrentum, poi Surrentum,
deriverebbe dalle Sirene sia a parere di Tolomeo che di Pontano.
In tal caso si dovrebbe intendere il suffisso –tum
come desinenza locativa per esprimere il senso di “posto delle
Sirene”. E sulla Punta Campanella, promontorio ch’ebbe
un tempo il nome di Syrenum, si trovava l’Athenaion,
il tempio costruito forse dai Siracusani al posto del precedente
dedicato al culto delle Sirene, certamente d’origine pelasgica
e forse dei Teleboi, sul pianoro della Torre di Montalto a Marina
del Cantone. L’etimologia proposta da Giovanni Semerano è
nondimeno dalla voce accadica surum, con il significato
esplicito di rocca.
Vesuvio (a.
m.) Quello vesuviano è un complesso vulcanico bicipite
da non meno di 17.000 anni composto dal monte Somma
e dal Vesuvio vero e proprio. Le pitture negli scavi pompeiani che
lo rappresentano monocipite sono da considerarsi paesaggi fantasiosi
e infatti nelle catacombe di san Gennaro a Napoli è visibile
un dipinto del VI secolo d. C. dove il santo è raffigurato
innanzi al complesso bicipite Vesuvio-Somma. Il primo ad attestarci
l’oronimo Vessuvius è Sisenna, mentre la forma
scempia della esse, con cui il nome si è affermato, ha la
sua prima testimonianza come aggettivo in uno Iovi Vesuvio
di Varrone. Virgilio ci tramanda un aggettivo Vesaevus
che troviamo come sostantivo in Stazio, il quale ha però
pure un Vesuvinus apex, ovvero “il cono vesuviano”.
Altre forme pervenute dall’antichità latina sono Vesvius
e Vesevus, adoperati per la prima volta come sostantivi
da Valerio Flacco, mentre il nome Vesbius lo si trova solo
in Marziale. I Vesbia rura, i campi vesuviani, sono ricordati
da Columella per la coltivazione dei cavoli, di cui menziona, oltre
a quello di Stabiae, la brassica del genus
Pompeianum con il caule sottile e grandi foglie. Tutta medioevale,
invece, è la denominazione del monte Somma
che si trova per la prima volta menzionato nel 937 per citare l’omonimo
villaggio alle sue falde. Sul Vesuvio si compì l’impresa
dello schiavo trace Spartaco che nel 73 a. C., fuggito dalla scuola
gladiatoria di Lentulo Baziato a Capua, vi si rifugiò
assieme a sua moglie e una settantina di compagni di cui conosciamo
solo i nomi di Crisso ed Enomao. All’assedio posto da tremila
militi romani agli ordini di Clodio Glabro che controllavano l’unica
via d’accesso i gladiatori sfuggirono calandosi di notte dai
dirupi più scoscesi e incustoditi con l’aiuto di corde
e scale intrecciate coi viticci. Con tale stratagemma essi colsero
alle spalle le coorti, spaventandole e costringendole alla resa.
Concordi sono stati a lungo gli studiosi nel trovarne l’etimo
in radice indoeuropea *aues = illuminare, aurora, oro,
o *eus = ardere, riconoscibile anche in Vesta, la dea del
focolare, confrontandole con quella osca *fesf = vapore,
proposta da T. Benfey. Sennonché l’intrico di questioni
sollevate dal diverso vocalismo e dal cambio d’iniziale fanno
scegliere l’origine di piena trasparenza dalle antiche basi
accadiche di wasu ed ebu che compongono il toponimo
di “monte luminoso”.
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