Una storia tutta partenopea ha invece la parola nferta.
Non si tratta, come molti credono, d’un termine che
ha origine da “offerta”. Essa deriva dal latino
infercio, da cui l’italiano ‘infarcire’,
con il senso d’insaccare, riempire, metter dentro, ed
è pertanto equivalente all’italiano ‘infarto’
ed al francese farce al quale noi dobbiamo il sostantivo
farsa ben distinto dalla sua parente stretta, ch’è
la farcia dei toscani. In particolare il nome nferta è
dato all’opuscolo, al libretto, a mano o a stampa, che
un autore confeziona per un capodanno come omaggio d’arte
e buonaugurio ai suoi più cari amici. In esso vengono
raccolte poesie o prose, commediole o canzonette, insomma
tutto ciò che non sarebbe facile racchiudere in un’opera
compiuta.
Tale tradizione sembra risalire al 1780, quando Luigi Serio,
autore nello stesso anno del Vernacchio, scritto
assai polemico in difesa della lingua popolare, pubblicò
quella che risulta essere la prima nferta, intesa
come un sovrappiù di giubilo e di festa da inserire
nel canestro di pietanze e di dolciumi per nutrire anche l’ingegno,
nella cornucopia d’ogni bene prodigato dal solstizio
dell’inverno. Nel 1834 fu poi Giulio Genoino ad iniziarne
una serie annua terminata solo nel 1856. Tra il 1837 e il
1842 videro la luce anche quelle di Michele Zezza e ad esse
dettero seguito, tra gli altri, Luigi Cassitto, Domenico Iaccarino
e Luigi Chiurazzi, fino a quando nel 1956, guidate da Max
Vajro, ne ripristinarono l’abitudine ed il gusto le
migliori penne di quel tempo.
Noi dell’Istituto linguistico italiano abbiamo avuto
la fortuna di poter entrare nel 2004, come già fu per
l’anno scorso, con il dono della nferta di
Claudio Pennino, il nostro validissimo collaboratore che ne
ha fatto omaggio ai suoi più cari amici raccogliendo
cinque originali poesie, la riscrittura parziale della lirica
di Andrew Marvell To his coy mistress e la traduzione
da Seneca della prima lettera a Lucilio. La scelta si raduna
intorno alla tematica del tempo che si perde, passa, ci consuma.
E il poeta invita nel napoletano di cui è maestro a
farne buon uso. Da qui il consiglio a chi ama, «cunzumammo
’o tiempo nuosto, / primma ca ’o tiempo ce cunzuma
a nnuie», e altresì all’amico, «comme
dicevano ’e viecchie nuoste, è troppo tarde sparagnà
quanno s’è arrivate ô funno; pecché
chello ca rummane nun sulo è poco, ma è pure
’o ppeggio».
In una plaquette di ventiquattro pagine serigrafate
in soli 183 esemplari in carattere Garamond su carta Modigliani
e in edizione non venale, Claudio Pennino ci regala versi
che sono grani di saggezza, ovvero di virtù che ama
scriversi sull’acqua. E nondimeno, sulle increspature
d’onda d’una lingua non incline all’uso
del futuro, che si compiace della presa del presente o ne
rifugge nel passato, ci conforta questa nferta col
paziente e colto suo lavoro. Del resto il più bel dono
del poeta è di non lasciarci soli con i nostri giorni
e, nel cesello delle sillabe ancestrali, il ritmo è
periodicità che ci scandisce il tempo. Sappiamo che
quando noi potremo dire di comprendere la vita essa sarà
per noi finita, ma di fronte allo spettacolo dei cocci antichi
ci rafforza la certezza che la creta e l’acqua continuano
a ruotare tra le mani dei vasai.
|