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mparulianno

Ripetere con Martin Heidegger che la parola è la dimora dell’essere, oppure, con Hans Georg Gadamer, che dell’essere possiamo noi capire solo il suo linguaggio, non è un esercizio astruso per i pochi specialisti di filosofia. Come spesso accade alle parole del pensiero che riflette su sé stesso e sul suo modo di prodursi, queste frasi, quando sono bene intese, raccomandano di stare attenti all’uso devastante del linguaggio in cui sta per soccombere la nostra umanità globalizzata. Ci si può preoccupare giustamente dell’inquinamento dell’ambiente e della prevedibile scomparsa della tigre siberiana, ma mi sembra strano, e molto più pericoloso, che soltanto a pochi importi del degrado delle lingue e non si dia rilievo alla conseguibile estinzione dei cervelli. Se l’essere è linguaggio, allora la freddezza con cui anche una sola lingua viene fatta lentamente scomparire è una violenza alle radici stesse dell’esistere dell’uomo.

A quanti ci potrebbero obiettare che la morte d’una lingua non significa scomparsa del linguaggio, oppure che le radici dell’esistere riposano nel codice genetico o son tenute in vita dalle leggi del mercato, noi replicheremo col pensiero che un altro filosofo ha trasmesso. Charles Sanders Peirce ha osservato che, se la parola la fa l’uomo, essa non significa nient’altro di ciò che l’uomo le fa significare. In tal modo può sembrare un docile strumento ma, poiché ciascuno pensa solo con i segni e anche il più semplice pensiero è solo un muto dialogo che “io” intrattengo con “me” stesso, allora le parole possono rivolgersi al presunto creatore e dirgli che “lui” non significa un bel niente, se non ciò che loro stesse gli hanno insegnato. Insomma il filosofo ci invita a riflettere sul fatto che noi tutti — perché “quanti” sono “io”? — non siamo altro se non interpreti di segni e difettosi, inoltre, come accade a ogni interpretazione.

A nessuno tocca in sorte di assegnare ad ogni cosa o evento il nome proprio, alla maniera di un Adamo biblico in un mondo ancora anonimo e inviolato. Nasciamo, invece, in mezzo a una cultura dove quasi tutto è stato nominato, dibattuto, predisposto in secoli di storia da coloro che a noi hanno trasmesso le parole e le modalità con cui le riceviamo. Da questo punto di vista quella del linguaggio è una dimora dell’essere da tempo già allestita. Noi vi abitiamo avendovi trovato un ricco arredamento che di volta in volta conformiamo alle richieste del notro essere sociale. Uomini e parole, insegna ancora Peirce, si educano a vicenda. L’aumento delle informazioni in ciascun uomo determina — ed è determinato da — un corrispettivo aumento delle informazioni contenute in ogni singola parola.

Tutto ciò comporta la necessità di vigilare su ogni lingua. Valorizzarla, tutelarla, misurarsi con gli abusi e le contraffazioni. Da qui l’inevitabilità di mparuliarse. Vale a dire l’esigenza di contendere a parole per la sopravvivenza stessa del linguaggio. Il napoletano ha più bisogno d’altre lingue d’una sua logomachia. D’una politica di lotta culturale. I suoi nemici sono interni. Ne offendono la storia errando la grafia, confondendo la morfologia e i significati. Pretendendo d’insegnarlo con abbagli e cantonate. E siccome niente è nella lingua che non sia parola occorre far chiarezza mparulianno. Ecco un modo per essere, allo stesso tempo, guerriglieri e pacifisti. Le parole della pace, infatti, sono sempre militanti. E le uniche battaglie in cui tutti vincono sono quelle che si combattono a parole, con le armi del pensiero e la forza dei ragionamenti.