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Editoriale del 1 febbraio 2005
Ovunque, tranne che in Campania.
di Amedeo Messina
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I migliori auguri di Natale e di
buon anno per tutto il Lazio sono stati quelli pronunciati nella
sera del 20 dicembre 2004 in via della Pisana a Roma, quando si è levato un brindisi ai dialetti. Con 35 voti a favore, zero
contrari e zero astenuti, il Consiglio regionale ha varato la proposta
di legge per la tutela e valorizzazione dei linguaggi dell’intero
territorio. Dall’anno prossimo potrà essere studiato
a scuola il romanesco o la parlata della Ciociaria, della Sabina
o del viterbese, in pieno accordo con gli Uffici scolastici delle
singole province.
Queste lingue entreranno nelle classi medie inferiori e superiori,
ma saranno altresì insegnate nelle università popolari,
nei centri per anziani e in quelli delle comunità degli emigrati
di origine laziale. In verità non se ne avvertiva un gran
bisogno, poiché assistiamo da decenni, sia nel cinema che
nelle televisioni nazionali pubbliche e private, al trionfo linguistico
del tosco-romanesco al posto del corretto fiorentino che la scuola
cerca d’insegnare fin dall’unità d’Italia
con modesti risultati. A giudicare, almeno, dai persistenti analfabeti
e dagli indicatori dei consumi culturali, come la vendita di libri
e di giornali.
Bisogna convenire che la lingua romanesca è nota, in modo
improprio, più per le volgarità dei personaggi sempre
in vista sugli schermi grandi e piccoli che non per la sua produzione
di spettacoli teatrali, di canzoni, di poesie e racconti. Più
che dal Belli e dal Trilussa gli italiani la conoscono così
per gli idiotismi dell’anvedi come balla Nando, dei bullacci
di borgata e dei coatti di ogni risma, dimenticando a un tratto
la nobiltà linguistica delle interpretazioni, per esempio,
della Magnani, di un Proietti, o della cinematografia di Luigi Magni.
Angelo Bonelli, capogruppo regionale dei Verdi, è stato il
promotore della proposta per la quale già da molti anni si
batteva il professor Ugo Vignuzzi, ordinario di dialettologia italiana
all’università di Roma “La Sapienza”. Tutti
e due riconoscono ai dialetti un ruolo insostituibile nella ricerca
delle identità e delle radici culturali che non può
venire trascurato nell’attuale rischio d’estinzione.
Proprio per questo maggioranza e opposizione hanno potuto lavorare
nella più completa intesa, al punto da convincere perfino
l’ultimo perplesso, il consigliere dell’Udc Giacomo
Troja.
Il voto unanime è il prodotto di convincimenti personali,
non di accordi sotto banco, e non a caso il rappresentante di Forza
Italia, Giorgio Simeoni, vicepresidente della giunta regionale con
deleghe alla Scuola, alla Formazione e al Lavoro, ha dichiarato
che le tradizioni popolari vanno mantenute vive proprio se si vuole
costruire un orizzonte europeo, mentre il verde Angelo Bonelli ha
ringraziato il presidente della Commissione Cultura, Claudio Bucci,
pure lui di Forza Italia, per il particolare impegno con cui ha
sostenuto la proposta legislativa.
Il testo legislativo prevede fondi per l’attivazione di un
Istituto per la tutela e la promozione dei dialetti laziali (ITPDL)
che sarà lo strumento operativo della Regione per le finalità
da conseguire, soprattutto per divulgare tra i giovani la conoscenza
e l’uso delle tradizioni popolari, soffocate da un pensiero
unico che rischia di travolgerne ogni senso. La memoria delle lingue
popolari verrà tutelata promovendo attività di ricerca,
seminari, convegni, pubblicazioni di opere letterarie e teatrali,
costituzioni di fondi e di archivi, iniziative editoriali, discografiche,
audiovisive e multimediali, trasmissioni radiofoniche e televisive,
nonché un dizionario storico e sociolinguistico del Lazio.
Per noi napoletani sembra un sogno avere un sindaco che possa dire,
come ha fatto Walter Veltroni nel novembre scorso in Campidoglio: «Il romanesco è un patrimonio culturale enorme e, se
fosse estinto, sarebbe come cancellare il Colosseo». E invece
la Campania non esprime un granché di donne e d’uomini
politici che sappiano andar fieri dei linguaggi nostri. Eppure non
brillano per ottima dizione d’italiano i nostri più
noti intellettuali, né si può giurare sulla buona
italianità dei pubblici discorsi pronunciati da molti dei
nostri uomini e donne ai parlamenti di Roma e di Strasburgo, per
non parlare poi dei consiglieri regionali e comunali.
Nonostante questo, e a differenza di ciò che avviene in Lazio
e un po’ dovunque, sia in Italia che in Europa, la Campania
non ritiene affatto necessaria una tutela dei linguaggi regionali,
né li reputa un valore identitario e culturale. Da noi, come
si usa dire, si va in controtendenza. In verità una legge
l’avevamo, anche se pochi lo sapevano, e il Consiglio regionale
ha provveduto ad abrogarla nel silenzio generale. Il 24 febbraio
del 1990, infatti, esso approvava con la legge n. 6 la fondazione
dell’Istituto Linguistico Campano per tutelare e valorizzare
il patrimonio linguistico locale, stanziando pure un patrimoniuccio
iniziale di centocinquanta milioni di vecchie lire e però
senz’assegnargli mai una sede.
Del fantomatico Istituto venne pure nominato il direttore, nella
persona del professor Nicola De Blasi, ordinario di Storia della
lingua italiana nell’università di Napoli “Federico
II”, ma in seguito non se n’è saputo più
nulla, fino alla successiva legge regionale n. 7 del 14 marzo 2003
che lo ha definitivamente cancellato. E non a caso fu possibile
rialzarne la bandiera abbandonata quando, il 21 maggio dello stesso
anno, venne costituita questa nostra associazione non lucrativa
e di utilità sociale che ne ha raccolto, con pochi mezzi
e molto amore, l’eredità ideale di proposte e iniziative
insieme con il nome.
Ovunque, tranne che in Campania, si ritiene che i linguaggi regionali
siano la vita stessa delle tradizioni culturali, la memoria storica
vivente di uomini e di donne che hanno reso nobile nei secoli una
terra con parole di fatiche, sentimenti e grandi lotte. Il riconoscimento
culturale nostro, ancora espresso nei pensieri e sulle labbra dei
viventi, è ribadito dal teatro, dalla poesia e dalla canzone,
ma è del tutto messo al bando dalle nostre stesse istituzioni.
Proprio quelle che dovrebbero rappresentarci e si vergognano di
noi che siamo, al tempo stesso, d’identità napoletana,
di cittadinanza italiana e di passaporto europeo, nonché
veracissimi bilingui, ostinandoci ad usare la lingua nazionale con
la mente e a dare voce al cuore “comme mammà nce ha
fatto”.
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