<%@LANGUAGE="JAVASCRIPT" CODEPAGE="1252"%> Istituto Linguistico Campano
presentazione
 
editoriale
 

forum con il sindaco iervolino
archivio editoriali
- 18/09/2006
- 03/02/2006
- 21/11/2005
- 01/02/2005
- 31/03/2004
- 10/12/2003
- 29/10/2003
- 26/06/2003
archivio probovirus
- 30 marzo 2007
- 07 gennaio 2004
- 15 dicembre 2003
- 24 settembre 2003
- 14 luglio 2003
- 30 giugno 2003

 

Editoriale del 1 febbraio 2005


Ovunque, tranne che in Campania.

di Amedeo Messina

I migliori auguri di Natale e di buon anno per tutto il Lazio sono stati quelli pronunciati nella sera del 20 dicembre 2004 in via della Pisana a Roma, quando si è levato un brindisi ai dialetti. Con 35 voti a favore, zero contrari e zero astenuti, il Consiglio regionale ha varato la proposta di legge per la tutela e valorizzazione dei linguaggi dell’intero territorio. Dall’anno prossimo potrà essere studiato a scuola il romanesco o la parlata della Ciociaria, della Sabina o del viterbese, in pieno accordo con gli Uffici scolastici delle singole province.
Queste lingue entreranno nelle classi medie inferiori e superiori, ma saranno altresì insegnate nelle università popolari, nei centri per anziani e in quelli delle comunità degli emigrati di origine laziale. In verità non se ne avvertiva un gran bisogno, poiché assistiamo da decenni, sia nel cinema che nelle televisioni nazionali pubbliche e private, al trionfo linguistico del tosco-romanesco al posto del corretto fiorentino che la scuola cerca d’insegnare fin dall’unità d’Italia con modesti risultati. A giudicare, almeno, dai persistenti analfabeti e dagli indicatori dei consumi culturali, come la vendita di libri e di giornali.
Bisogna convenire che la lingua romanesca è nota, in modo improprio, più per le volgarità dei personaggi sempre in vista sugli schermi grandi e piccoli che non per la sua produzione di spettacoli teatrali, di canzoni, di poesie e racconti. Più che dal Belli e dal Trilussa gli italiani la conoscono così per gli idiotismi dell’anvedi come balla Nando, dei bullacci di borgata e dei coatti di ogni risma, dimenticando a un tratto la nobiltà linguistica delle interpretazioni, per esempio, della Magnani, di un Proietti, o della cinematografia di Luigi Magni.
Angelo Bonelli, capogruppo regionale dei Verdi, è stato il promotore della proposta per la quale già da molti anni si batteva il professor Ugo Vignuzzi, ordinario di dialettologia italiana all’università di Roma “La Sapienza”. Tutti e due riconoscono ai dialetti un ruolo insostituibile nella ricerca delle identità e delle radici culturali che non può venire trascurato nell’attuale rischio d’estinzione. Proprio per questo maggioranza e opposizione hanno potuto lavorare nella più completa intesa, al punto da convincere perfino l’ultimo perplesso, il consigliere dell’Udc Giacomo Troja.
Il voto unanime è il prodotto di convincimenti personali, non di accordi sotto banco, e non a caso il rappresentante di Forza Italia, Giorgio Simeoni, vicepresidente della giunta regionale con deleghe alla Scuola, alla Formazione e al Lavoro, ha dichiarato che le tradizioni popolari vanno mantenute vive proprio se si vuole costruire un orizzonte europeo, mentre il verde Angelo Bonelli ha ringraziato il presidente della Commissione Cultura, Claudio Bucci, pure lui di Forza Italia, per il particolare impegno con cui ha sostenuto la proposta legislativa.
Il testo legislativo prevede fondi per l’attivazione di un Istituto per la tutela e la promozione dei dialetti laziali (ITPDL) che sarà lo strumento operativo della Regione per le finalità da conseguire, soprattutto per divulgare tra i giovani la conoscenza e l’uso delle tradizioni popolari, soffocate da un pensiero unico che rischia di travolgerne ogni senso. La memoria delle lingue popolari verrà tutelata promovendo attività di ricerca, seminari, convegni, pubblicazioni di opere letterarie e teatrali, costituzioni di fondi e di archivi, iniziative editoriali, discografiche, audiovisive e multimediali, trasmissioni radiofoniche e televisive, nonché un dizionario storico e sociolinguistico del Lazio.
Per noi napoletani sembra un sogno avere un sindaco che possa dire, come ha fatto Walter Veltroni nel novembre scorso in Campidoglio: «Il romanesco è un patrimonio culturale enorme e, se fosse estinto, sarebbe come cancellare il Colosseo». E invece la Campania non esprime un granché di donne e d’uomini politici che sappiano andar fieri dei linguaggi nostri. Eppure non brillano per ottima dizione d’italiano i nostri più noti intellettuali, né si può giurare sulla buona italianità dei pubblici discorsi pronunciati da molti dei nostri uomini e donne ai parlamenti di Roma e di Strasburgo, per non parlare poi dei consiglieri regionali e comunali.
Nonostante questo, e a differenza di ciò che avviene in Lazio e un po’ dovunque, sia in Italia che in Europa, la Campania non ritiene affatto necessaria una tutela dei linguaggi regionali, né li reputa un valore identitario e culturale. Da noi, come si usa dire, si va in controtendenza. In verità una legge l’avevamo, anche se pochi lo sapevano, e il Consiglio regionale ha provveduto ad abrogarla nel silenzio generale. Il 24 febbraio del 1990, infatti, esso approvava con la legge n. 6 la fondazione dell’Istituto Linguistico Campano per tutelare e valorizzare il patrimonio linguistico locale, stanziando pure un patrimoniuccio iniziale di centocinquanta milioni di vecchie lire e però senz’assegnargli mai una sede.
Del fantomatico Istituto venne pure nominato il direttore, nella persona del professor Nicola De Blasi, ordinario di Storia della lingua italiana nell’università di Napoli “Federico II”, ma in seguito non se n’è saputo più nulla, fino alla successiva legge regionale n. 7 del 14 marzo 2003 che lo ha definitivamente cancellato. E non a caso fu possibile rialzarne la bandiera abbandonata quando, il 21 maggio dello stesso anno, venne costituita questa nostra associazione non lucrativa e di utilità sociale che ne ha raccolto, con pochi mezzi e molto amore, l’eredità ideale di proposte e iniziative insieme con il nome.
Ovunque, tranne che in Campania, si ritiene che i linguaggi regionali siano la vita stessa delle tradizioni culturali, la memoria storica vivente di uomini e di donne che hanno reso nobile nei secoli una terra con parole di fatiche, sentimenti e grandi lotte. Il riconoscimento culturale nostro, ancora espresso nei pensieri e sulle labbra dei viventi, è ribadito dal teatro, dalla poesia e dalla canzone, ma è del tutto messo al bando dalle nostre stesse istituzioni. Proprio quelle che dovrebbero rappresentarci e si vergognano di noi che siamo, al tempo stesso, d’identità napoletana, di cittadinanza italiana e di passaporto europeo, nonché veracissimi bilingui, ostinandoci ad usare la lingua nazionale con la mente e a dare voce al cuore “comme mammà nce ha fatto”.