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editoriale del 29 ottobre 2003


Una settimana particolare
di Amedeo Messina

La settimana prossima l’hanno dedicata all’italiano. E voi sùbito pensate che voglia essere un omaggio al cittadino afflitto da governo, opposizione e sindacato. Forse un altro modo per sottolineare una smarrita identità nazionale? Un colpo di mano degli xenofobi nostrani contro la cittadinanza che si vuole finalmente riconoscere agli extracomunitari? Nulla di tutto questo. Non state lì a preoccuparvi.
Si vuole festeggiare l’italiano che parliamo. L’idea è di celebrare il trionfo del mito risorgimentale che credeva in un’Italia “una di lingua, patria, popolo, cultura e religione”. Poco importa che la cosa non abbia retto alla prova dei fatti, dimostrandosi un falso storico, smentito di continuo dalla realtà economica, politica e sociale.
E voi che ne pensate? Vuoi vedere che dobbiamo ritornare ai vecchi banchi? Niente niente tornassero all’attacco quelle scatenate professoresse d’italiano a sanzionare i nostri errori e a metter voti sui registri? Un altro sbaglio. Continuate a tenervi stretta la lingua che parlate e mettetevi tranquilli.
Dunque una settimana tutta dedicata all’italiano e voi, scommetto, nemmeno ve ne siete accorti. Non me ne vogliate, perché non ve ne faccio una colpa. Non uno spot, una notizia, un articolo o che so? una serata in casa Vespa, un augurio ai cittadini a reti unificate. Niente. Siamo tutti impreparati al grande evento.
Sarà che l’hanno messa proprio bene, piazzata tra la festa per i santi e quella che commemora i defunti... L’annuncio è stato come un invito a festeggiare un caro amico che sta lasciandoci per sempre. Che so? Lavoro all’estero. Malato terminale. Fate un po’ voi.
Sarà che ve l’immaginate gli interventi che brindano all’italiano storpiandolo in cadenze tra il lombardo, il bolognese o il romanesco? E infarciti, come si usa, dell’onnipresente angloamericano?
Una settimana d’immancabili discorsi e nuovo spreco di denaro pubblico per inutili convegni e tavole rotonde. Come se una lingua, quando è vera, non la si celebrasse parlandola ogni giorno, in casa e fuori, nei momenti personali e sul posto di lavoro, negli affetti e negli affari. Ho l’impressione che si celebri in realtà una nuova festa delle finzioni nazionali di posticce identità unitarie.
Quella di una sola lingua per capirsi dalle Alpi a Lampedusa è un’imposizione esterna alla quale volentieri gli “italiani” si sottraggono non appena è possibile o necessario. Ma non lo si può dire. Per divieto della legge? Certo che no. Ci mancherebbe. Ognuno parli come vuole, dice più o meno la Costituzione stessa, né potrebbe essere il contrario. E allora, perché non dirlo?
Semplice. Lo si dice... lo si dice. Ce lo diciamo tra di noi, in casa e con gli amici. E quindi non è un vero dire, perché parla veramente solo chi le cose le dice dai giornali e, ancor di più, dalla televisione. Perché ormai la lingua è vera quando diventa comunicazione. Non ci avevate fatto caso? Peggio per voi. Così va il mondo. E infatti i grandi comunicatori, quelli per intenderci che firmano gli articoli e la fanno da padroni nei salotti nediatici così da omologare la pubblica opinione ed estinguere i cervelli, hanno ogni interesse ad un linguaggio standardizzato, semplice e unitario.
Siamo chiamati a festeggiare ciò che tra noi scompare. Ovvero la ricchezza e il gusto di una bella lingua che in molti vogliono affossare. E allora su coi fuochi d’artificio nella notte che nasconde il nulla. E consoliamiaci apprendendo che in paesi dove a scuola si è giunti ad insegnare una terza lingua gli stranieri hanno scoperto l’italiano. Dopo l’ovvio inglese e dopo il francese, lo spagnolo ed il tedesco, i ragazzi ormai parlano il toscano. E ci consoli che non l’imparino per capire Rai 1 o Rete 4, ma per leggere poesia, romanzi, e quanto di meglio abbiamo scritto per il cinema e il teatro.
Ma invece di buttare euro e far brutta figura iscrivendoci alla gara per vincere la coppa della lingua più studiata, non sarebbe stato meglio andarla ad insegnare ai connazionali all’estero che l’hanno ormai dimenticata? Non c’è nel mondo una scuola ove s’insegni gratuitamente l’italiano ai figli dei nostri emigrati. Gli abbiamo finalmente riconosciuto il diritto al voto, ma a che gli serve se non sono in grado d’informarsi sulla nostra stampa e di capire ciò che accade dalle nostre parti?
Parlare la propria lingua è come stare in casa propria, è come ritornare in patria. Ed è la stessa cosa per le lingue abbandonate e vilipese. Figlie di chi sa quale dio minore. Nessuno qui in Campania ha mai speso ieri una lira e oggi un euro per il napoletano.
Lo parliamo, ma in privato. Ne ascoltiamo le canzoni, le poesie, il teatro, ma non vogliamo che sia la lingua dei nostri figli. A fargli poi una festa, non ci pensiamo nemmeno. Felici che di lui nulla si sappia in giro. Come l’affetto che serbiamo per un vecchio zio un po’ matto. Segreti di famiglia.
Proprio per questo mi permetto di proporre una grande festa annuale per la nostra lingua nativa. Quando? Con l’ingresso della primavera. Con chi? Con tutti quelli che vogliano liberamente esprimersi in dialetto, in lingua, o come accidenti preferite voi chiamare il napoletano. E inviteremo poeti, musicisti, drammaturghi, attori, letterati, esperti, studiosi, e chiunque altro voglia amare non più clandestinamente di Partenope la voce.