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editoriale del 10 dicembre 2003
Lo shibboleth di Roberto Calderoli
di Amedeo Messina
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Il nostro parlamento ha tra i suoi
membri Roberto Calderoli, coordinatore nazionale (sic!) della Lega
Nord – Lega Lombarda. Incurante di sintassi e congiuntivi
egli ha proposto di negare la cittadinanza agli extracomunitari
che non parlino correttamente l’italiano e il dialetto della
comunità dove lavorano, e al tempo stesso ignorino leggi
e tradizioni repubblicane. Il 25 novembre il disegno di legge di
cui egli è il primo degli undici firmatari, tutti della Lega
Padana, è giunto al Senato in sede referente e ha così iniziato il suo percorso verso una insperabile promulgazione.
Nella relazione prolusiva al disegno di legge il senatore bergamasco,
eletto nel collegio di Clusone – Valli, afferma in verità
solo l’esigenza di testare “la capacità dello
straniero di parlare la nostra lingua o la sua conoscenza dei nostri
usi e costumi, della nostra storia, del nostro sistema istituzionale
e delle regole basilari della nostra società”.
E il lettore qui già inizia a non capire. Infatti “capacità”
non vuol dire competenza, e dunque si tratterà solo di dare
prova d’essere in grado di apprendere ad esprimersi nella
nostra lingua nazionale.
Non c’è dubbio, se vogliamo dare un senso alle parole,
che “capaci” di parlare una seconda e una terza lingua
lo siamo per nascita un po’ tutti. Lo impediscono soltanto
serie patologie o problemi psichici d’un certo rilievo. Per
“capacità” s’intende, infatti, la capienza
o quantità d’informazioni che un soggetto è
in grado di elaborare nel sistema cognitivo. La capacità
empiricamente non determinabile dell’apprendimento a lungo
termine, per esempio, si considera in linea teorica illimitata.
Una persona potenzialmente idonea a svolgere azioni o ad assolvere
un compito noi la diciamo “capace”. Ne consegue che
per definire e per testare una capacità ci si deve riferire
all’attività in cui essa si esplica e alla serie di
operazioni che richiede e che non sono riportabili ad un solo tipo
di assunto. Se la funzione di cui si tratta è quella del
linguaggio occorrerà, ai fini della valutazione dei soggetti
e per la previsione del loro rendimento nei test attitudinali, riferirsi
dunque alle tendenze innate e ai comportamenti in seguito acquisiti.
Calderoli avrebbe dovuto tutt’al più proporre di valutare
le abilità e le competenze conseguite nella “italianità
linguistica” dagli extracomunitari, così da poter eseguire
mansioni con un ruolo attivo, responsabile e soddisfacente negli
àmbiti sociali di cui sono protagonisti o per risolvere situazioni
problematiche o produrre nuove prestazioni. L’italiano, ma
il discorso vale per ogni altra lingua, lo si parla e lo si scrive
in molti modi. Altra cosa, invece, è se la “capacità” rinvia alla normativa.
In tal caso, infatti, noi parliamo di errore o d’ignoranza,
quando si attribuisce a un vocabolo un significato che non ha o
quando non si corrisponde, per esempio, alle regole ortografiche,
di morfologia, di sintassi o di dizione. E qui non c’è
bisogno di alcun test, perché basta leggere uno scritto o
ascoltare un discorso del soggetto di cui si vuole valutare la padronanza
della lingua per esprimerne un giudizio. Ma non assegneremmo certo
al senatore bergamasco un tale compito, perché continua a
darci prova d’ignorare, proprio lui, la lingua che vorrebbe
poi testata in ogni singolo “straniero”.
A tal proposito bisogna pur notare che Roberto Calderoli afferma
di voler testare “la capacità dello straniero di
parlare la nostra lingua o la sua conoscenza dei nostri usi [...]” e dunque egli adopera la “o” come congiunzione
disgiuntiva, forse restrittiva o tutt’al più copulativa,
nella scelta tra due diverse possibilità che sono contrapposte,
e dunque si escludono a vicenda, oppure esprimono un’alternativa,
o segnalano una piena indifferenza o una totale equivalenza. Ma
di sicuro la “o” non potrà significare “tutt’e
due le cose”, un abbinamento, un’accoppiata. Il testo
che propone all’esame del Senato appare chiaro: lo straniero
dovrà parlare in italiano oppure conoscere le usanze della
nostra terra. O questo o quello.
Questo è quanto noi leggiamo dalla relazione prolusiva. Così
è documentato agli atti del Senato. E invece no. Il senso
va da un’altra parte. Il senatore incalza e apporta emendamenti
al proprio testo, precisando poco dopo che il test, “oltre
a comprendere una prova di lingua italiana e locale, in base alla
regione di residenza, comprende anche domande di cultura generale,
storia, cultura e tradizioni, sistemi istituzionali, sia nazionali
sia locali”. Ciò significa che il povero straniero
dovrà dar prova di sapere non soltanto esprimersi in italiano,
ma di comprendere e parlare pure, per esempio, il bergamasco o il
napoletano o il gallurese.
Non si capisce perché mai dovremmo pretendere dai curdi,
dagli algerini o dai senegalesi ciò che la Repubblica non
chiede ai suoi impiegati, giudici, docenti o poliziotti, per poter
consentire quella che Roberto Calderoli chiama “una perfetta
integrazione con il territorio”. Ve lo immaginate, voi,
un pretore di prima nomina in quel di Sassari alle prese nelle prove
di concorso con il logudorese? Il senatore non ha capito che l’italiano
sopravvive sia perché è una lingua imposta dallo Stato,
sia perché funziona come lingua franca lungo tutta la penisola,
tant’è che si allontana sempre più dal fiorentino
originario.
Ciò che oggi vale per la lingua ancor di più varrà
per gli usi e le tradizioni del “localismo” cui pretende
il senatore. Per fare un esempio, il povero “straniero”
a Napoli, ricco solo del suo curdo o del suo wolof e delle tradizioni
orali della propria comunità, dovrebbe, nell’ipotesi
leghista, non soltanto farsi esperto d’italiano e di partenopeo,
ma pure, che so?, della differenza tra il crocchè e il panzarotto,
o di quella tra scartar fruscio e prendere primiera. Ma vorremo
addebitare agli ucraìni se, per la stragrande maggioranza
degli italiani, di Schevchenko c’è soltanto l’Andriy
attaccante del Milan e non il grande poeta Taras, cui è intitolata
l’Università di Kiev? Dall’intercultura, com’è facile mostrare, noi possiamo apprendere parecchie belle cose.
Infine, non bastasse il fin qui detto, a parer di Calderoli l’extracomunitario
che non desistesse dal pretendere la nuova cittadinanza dovrà mettersi a studiare usi, costumi, storia, e poi “le leggi,
i diritti ed i doveri che derivano dall’appartenere alla nostra
nazione, per poter convivere al meglio con la popolazione autoctona”.
Ed è qui che il senatore si cimenta d’improvviso nel
gioco delle tre carte, tentando di occultare che il partito, il
quotidiano e ogni leghista d.o.c. si proclama uno straniero nei
confronti dell’Italia. E dunque di quale nazione va cianciando?
Egli e i suoi leghisti si dichiarano padani. Rivendicano anzi una
cittadinanza padana e un’origine purissima da Celti, Longobardi,
marinai veneziani e genovesi, guerrieri che giurarono a Pontida
e quant’altro li distingua dagli altri peninsulari.
Ne consegue che il solerte extracomunitario richiedente la cittadinanza
italiana dovrà dimostrare il possesso delle capacità
di apprendere la nostra lingua nazionale, oppure di conoscere usi,
costumi, storia, diritti e doveri del “bel paese”. Proprio
quelle cioè che Calderoli mostra di non aver saputo adoperare.
Se perfino in un documento destinato al patrio laticlavio, quello
stesso che l’ha visto sempre impappinarsi tra sintassi e congiuntivi,
egli ciangotta nella scelta di vocaboli e nell’uso delle congiunzioni,
annaspa tra le storie finte e quella vera per restar sommerso, infine,
nel risibile razzismo della Val Seriana.
Quelli come Calderoli, a furia di cercare le diversità di
origine e di lingua, riuscirebbero a trovarne anche nel chiuso delle
valli subalpine. Fino a celebrare il mito di un homo clusonensis da cui lo stesso senatore, ne siamo certi, prima o poi verrebbe
escluso. Egli ha nel nome un’ascendenza longobardica, perché
“Roberto” in quella lingua significò “illustre
per fama”, ma un tal nordico blasone è sùbito
smentito dal cognome “Calderoli”, ovvero da un plurale
di chi ha esercitato il mestiere del calderaio, derivando dal latino calidus che ha una base corrispondente all’accadico qalu con il significato di “mettere sul fuoco”.
Anche il senatore di Clusone, quindi, non potrà sfuggire
a origini linguistiche latine e alle semitiche radici culturali
della nostra Europa.
Infine, “per poter convivere al meglio con la popolazione
autoctona”, lo straniero che pretende la cittadinanza
quale italiano dovrà mai conoscere e parlare? Quello in uso,
certamente, tra gli “autoctoni” e cioè uno dei
tanti che circolano oggi in Italia. Essi saranno dunque distinguibili
a seconda d’uno shibboleth, ovvero con un contrassegno
linguistico, una parola pronunciabile e riconoscibile esattamente
solo da chi abbia una perfetta conoscenza del linguaggio d’una
determinata zona. Come gli uomini di Galaad distinguevano i fuggiaschi
di Efraim esaminando come pronunciavano il termine shibboleth,
parola con cui designavano la spiga di grano. Proprio come i rivoltosi
siciliani che nei loro “vespri” cominciati il 31 marzo
1282 riconoscevano i Francesi in fuga intimandogli di dire “cìcero”,
sapendo che i nemici l’avrebbero pronunciato “siseró”
e così finivano ammazzati.
Lungo la penisola si parla l’italiano veicolare con pronunce
e con calate ben diverse in tutti i suoi comuni. Quanto alla scrittura
meglio non parlarne. Ciò che Calderoli intende mettere ad
esame boccerebbe molto più d’un autoctono, nonostante
i quasi centocinquant’anni di unità di lingua e di
nazione. Anzi. Una commissione seria boccerebbe la stessa italianità
del senatore. E a Bergamo? Quale italiano scrivono dopo gli indefettibili
otto anni d’obbligo scolastico con tanto di lezioni in lingua
fiorentina? Ne diamo esempio nella foto a fianco, precisando solo
che la si è scattata in un cantiere bergamasco. Non si tema.
Ai solerti edili e al direttore dei lavori non verrà in mente
a nessuno di sottrarre la cittadinanza.
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