editoriale del 26 giugno 2003
Come sta il napoletano?
di Amedeo Messina
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Non me lo chiedono né amici né parenti. Né se ne preoccupano i politici, che però la salute pubblica dovrebbero avere in cima ai loro impegni. Non dico quelli dell’oltrepò bossiano, certo, ma gli eletti dal popolo campano nei consigli comunali, alla regione o al parlamento nazionale. Come sta il napoletano? La domanda dovrebbe venir su spontanea, a chiunque ne abbia a cuore la vitalità, la storia, il suo futuro. Ma non ci si dà pensiero più di tanto perché, avendolo entro casa, si è portati a credere che tutto vada bene. Anzi. Fa fin troppo chiasso. E infastidisce.
Quando chiedo in giro come sta il napoletano, molti pensano che mi riferisca al “popolo” di Napoli, o a qualcuno in particolare. Sono tutti a tal punto immersi in un mare di parole e locuzioni idiomatiche da non capire che mi assilla la salute della lingua. E non perché io non abbia altro cui rivolgere attenzioni, ma per sentirla in giro usata per gli scatti d’ira e con accenti sconci, per vederla scritta quasi sempre piena zeppa di ogni errore, per sapere quanto pochi siano coloro che riescano a leggerla e lo facciano con gioia.
La cura a essa rivolta da poeti e drammaturghi non l’assolve dal giudizio generale che la reputa plebea, se non volgare, nonostante si continui a provar fremiti ascoltando una canzone o assistendo a una commedia. Si aggiunga pure la camorra, che ha tra i suoi crimini maggiori la devastazione che va compiendo della nostra lingua. Delitto non previsto da nessun codice, perché nessuna legge contempla come reato il danno che si arreca ai beni immateriali. E non minore scempio commette, a mio parere, chi millanta conoscenze linguistiche e didattiche, bussando a scuole dello Stato per improvvisarsi esperto di napoletano, proponendovi lezioni di grammatica e poesia e per giunta dispensandone diplomi ai trascurabili corsisti.
Vi è un’attenzione sempre più crescente per l’ambiente e i suoi problemi, oltre che per l’ecosistema planetario, ma ben pochi sembrano curarsi del pericolo di morte d’una lingua. E un tale rischio incombe quando una lingua non viene più trasmessa in modo naturale ai bambini da parte dei genitori o di chi ne ha cura. L’apprendimento linguistico in età adolescenziale, infatti, ha scarse probabilità di riuscita, a causa della stabilizzazione selettiva di gran parte delle capacità neuronali di attenzione e assimilazione. Ed è proprio per tal motivo che si conviene calcolare l’indice di salute di una lingua dividendo il numero dei bambini che ne sono locutori per quello dei bambini che parlano la lingua dominante del paese. La diminuizione progressiva del quoziente è un chiaro segno del rischio d’estinzione.
Continuo a domandare come sta il napoletano. E mi risponde solo l’Ethnologue, organo del “Summer Institut of Linguistics” che conduce a Dallas ricerche su 6.800 lingue parlate in 231 diversi paesi del mondo, ne controlla con gran cura il numero dei parlanti e attualmente diagnostica lo stato di salute del napoletano come “vigorous” e “endangered”, vale a dire vigoroso e però a rischio. A tale giudizio si perviene perché si calcola che più di sette milioni siano i suoi locutori in quotidiano bilinguismo, oltre al fatto di essere dotato di una vitalissima letteratura, ma si fa di tutto per danneggiarlo. Robusto e al tempo stesso compromesso. Giudizio solo in apparenza contraddittorio e che merita attenzione. E in questo sito mostreremo gli elementi che inducono a una pronta terapia e a un consapevole programma d’interventi.
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