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Editoriale del 31 marzo 2004
Nel campionato europeo delle lingue
l’italiano si piazza al settimo posto. Ventiquattresimo il napoletano.
di Amedeo Messina
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L’Economist è
il prestigioso settimanale inglese più citato dai politici
nostrani. Non vi è un suo numero in cui non compaia un articolo
che esprima dei giudizi o dia informazioni sulle vicende dell’Italia.
E i più autorevoli interpreti delle cose di casa nostra,
che sono poi gli stessi che queste cose le inventano e le gestiscono,
autorizzati o no che siano, si sforzano nel gioco di tirare da sinistra
o verso destra il senso delle sue parole, perché si sa che
l’ermeneutica è uno sport nel quale il bel paese eccelle
da Bolzano fino a Lampedusa.
Tanto più appare perciò strano che nessuno dei professionisti
della politica si sia messo a interpretare i dati posti in evidenza
nell’ultima edizione del celebre The Economist pocket
Europe in figures che figura sempre come uno strumento assai
prezioso per gli operatori economici e politici di tutto il mondo.
Non a caso, e senza alcun complesso, esso proclama in copertina: «Fatti e cifre sui paesi che formano l’Europa di oggi.
Se vi occorrono i più recenti dati sulle 48 nazioni che compongono
l’Europa odierna, non c’è fonte più autorevole
di noi».
Il libretto dall’inizio di quest’anno in vendita interviene
opportunamente sui linguaggi che si parlano in Europa e, senza impelagarsi
nel problema delle lingue e dei dialetti, buono solo per gli accademici
linguisti, pone sullo stesso piano dell’indagine le lingue
tutte insieme, dandone una propria graduatoria in base al numero
dei loro locutori. Scopriamo così che l’italiano, di
cui il nostro ottimistico governo riportava la notizia d’una
lingua sempre più diffusa, è non soltanto collocato
solo al settimo posto, dietro il turco e il polacco, e a stento
avanti all’ucraìno, ma risulta minacciato dalla concorrenza
interna dei suoi stessi linguaggi regionali.
Nessuno ha storto qui da noi la bocca. Non un battito di ciglia.
E non dico per amor di patria, ma perché non è certo
cosa seria. La classifica è un imbroglio, non saprei dire
se per ignoranza o per trovare nelle lingue un nuovo campo di squilibrio
favorevole alla politica europea dell’Inghilterra. Tagli o
rialzi di parlanti riguardano gli idiomi, guarda un po’, paesi
vittime o beneficiari dei britannici interessi e ciò sostiene
la seconda ipotesi, ma questo non esclude una notevole insipienza.
Prendete per esempio lo spagnolo, accreditato per un misero 28 milioni
di parlanti pur avendo, com’è noto, più di 40
milioni di abitanti ed è inutile che vi mettiate a far di
conto. Perché pur sommando castigliani, baschi, catalani
e altro, ugualmente il totale è scombinato.
Né meglio se la cava quella sorta d’Italia preunitaria
che la graduatoria ci propone. Gli italiani sono molto più dei 42 milioni che l’Economist conteggia come suoi
parlanti. Rispetto all’ultimo censimento ne scompaiono ben
16 milioni. Per un paese che lamenta un numero eccessivo di pensioni
francamente è troppo! Si è autorizzati a credere pertanto
che lombardi, napoletani, siciliani e veneti bisogna aggiungerli
alla cifra, dal momento che noi siamo tutti locutori di un bilinguismo
(sia pure imperfetto) con una più o meno accentuata diglossia.
Ma in tal caso si collocherebbe l’italiano addirittura al
terzo posto, con 65 milioni di abitanti, ovvero 9 in più che rischiano di darci la nomea di avere in nero anche i parlanti.
I calcoli risultano sbagliati, anche perché il lombardo è
sovrastimato e al venetico la cifra fa difetto. A non quadrare non
sono però soltanto i conti. Stranamente mancano all’appello,
o per meglio dire non risultano in classifica, le lingue sarde e
quella friulana, che da noi per legge sono tutelate, e il piemontese,
il marchigiano, il romanesco, il ligure, il pugliese e tutte le
altre che pur son vive e ben parlate e scritte, nonostante la politica
linguistica oppressiva dei governi che si sono succeduti dal 1861
ad oggi.
Quello che però più ci colpisce è l’assoluta
novità di un napoletano/calabrese di cui in Italia nessuno
si è mai accorto. Un mostro linguistico bicefalo inventato
da chi sa qual somaro inglese, ignaro che in Calabria esistone tre
forme differenti di linguaggi regionali e tutte ben diverse dal
partenopeo. Ciò che importa è il dato per cui si accredita,
ancora una volta, il napoletano come lingua tra le 36 più
parlate dei popoli europei e con non meno di 5 milioni di locutori,
più di quanti ne annoverano il bulgaro, lo shqiptar, il finlandese
o il lituano, nonostante che nessuno e niente lo tuteli e non un
euro si spenda per il suo insegnamento, a differenza del lombardo
e dello stesso siciliano.
Classifica
delle lingue europee
(pubblicata su “The Economist pocket Europe in figures”)
La cifra tra parentesi dopo la lingua indica in milioni il numero
dei suoi parlanti in Europa.
01. Russo (170);
02. Tedesco (98);
03. Francese (62,7);
04. Inglese (61,9);
05. Turco (59);
06. Polacco (44);
07. Italiano (42,3);
08. Ucraìno (41,2);
09. Spagnolo (28,3);
10. Romeno (26);
...;
20. Lombardo (9,1);
24. Napoletano/calabrese (7);
29. Siciliano (4,6);
36. Veneto (2,2).
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