Editoriale del 21 novembre 2005
Gli analfabeti di due lingue
di Amedeo Messina
Ben pochi se ne sono accorti, ma in Italia c'è oggi uno scontro di cifre sul numero degli analfabeti circolanti nel paese. Non è che l'opinione pubblica sia distratta, ma il fatto è che se vi sono analfabeti non si può pretendere da loro che s'informino di ciò sui quotidiani. La cosa resta così un tema per addetti ai lavori. Degli ignoranti parlano i sapienti. Degli illetterati sembra sia normale che discutano soltanto gli uomini di lettere e i docenti. Ed è così che ci si azzuffa lanciandosi pallottole di carta. Tutto in giro, infatti, si combatte con articoli, smentite, calcoli aggregati e sottrazioni.
Il pomo della discordia lo ha lanciato Saverio Avveduto, presidente dell'Unione nazionale per la lotta all'analfabetismo, con uno studio presentato il 15 novembre a Roma assieme al giornalista Sergio Zavoli e a Tullio De Mauro, noto linguista e già ministro della Pubblica istruzione. La ricerca dell'Unla, dal titolo "La croce del Sud. Arretratezza e squilibri educativi nell'Italia di oggi", ha per sua base gli ultimi dati Istat relativi al censimento del 2001. Da qui vien fuori che la platea d'analfabeti e dei senza titolo di studio è pari a circa 6 milioni di persone, ovvero a 12 italiani su cento.
Tuttavia la cosa ben più grave è che bisogna aggiungere a costoro i connazionali possessori tutt'al più della licenza media o che hanno addirittura frequentato solo la scuola elementare. Abbiamo così una cifra di 36 milioni d'italiani analfabeti o quasi, pari al 66% della popolazione. A questa cifra si perviene in quanto è noto ormai che il precoce abbandono della scuola è causa certa delle varie forme dell'analfabetismo di ritorno. Può forse suscitare meraviglia che il maggior numero di senza titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare si concentri in Lombardia con 2 milioni e 800 mila analfabeti.
Queste cifre trovano convalida nei dati che ha fornito l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la quale in una graduatoria dei maggiori trenta paesi al mondo sulla base del prodotto interno lordo assegna al Messico la più grande percentuale di analfabeti, cui seguono il Portogallo e poi l'Italia. In tutto ciò la Campania si segnala per essere seconda, con i suoi circa 2 milioni, tra le regioni con il maggior numero d'ignoranti dichiarati. Napoli è quarta tra le città più analfabete, preceduta da Catania, Palermo e Bari.
Ovviamente tanto l'Istat quanto il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca contestano le cifre pubblicate dall'Unla. A loro avviso è uno svarione ritenere che non sanno lèggere, scrivere e far di conto tutti quelli che non hanno conseguito la licenza elementare, ovvero 5.199.237 italiani, addizionandoli peraltro ai 782.342 veri analfabeti. Ma qui l'analisi si sposta sul significato che si vuole attribuire alla parola 'analfabeta' e, prima o poi, si farà ricorso alla dottrina del relativismo culturale per negare alla radice il fenomeno stesso.
Chiariamo. Malgrado 144 anni d'obbligo scolastico su tutto il territorio nazionale, con l'annesso insegnamento dell'italiano, ancora non si viene a capo della quasi piena estraneità della nostra lingua per almeno il 12% del paese e di una sua insufficiente conoscenza per un altro 54%. E quando lo stesso professor De Mauro candidamente ammette che tuttora il 25% dei ragazzi licenziati con la terza media sono analfabeti non si può certo pensare a calcoli campati in aria o a statistiche inesatte, ma bisogna prendere atto che qualcosa non funziona nel "sistema scuola".
Qualsiasi azienda pubblica o privata in cui la produzione avesse anche soltanto il 5% di sprechi e disfunzioni e non s'interrogasse sui motivi della propria inefficienza chiuderebbe i suoi battenti in pochi giorni. Invece il sistema scolastico italiano, pur con tutte le riforme che si è dato, non risolve il suo problema. Anzi, sembra non avere alcuna voglia di affrontarlo alle radici, preferendo i cambiamenti di facciata, gli agili ritocchi di programma e lo sbandieramento delle offerte formative, invece di correre ai ripari dei processi della propria produzione culturale.
In qualsiasi altra impresa ogni prodotto difettoso è segnalato sùbito, perché non ha senso riparare il danno in sede di collaudi finali. Diventa più difficile comprendere la causa del guasto e inutile sarebbe ogni rimedio. Così pure nelle scuole occorre al più presto abbandonare la linearità seriale dei montaggi formativi e rendersi davvero conto della individuale identità di tutti e di ciascuno. Tutto ciò significa imparare "in situazione" cosa e quanto è possibile insegnare e, soprattutto, "come e con chi" si sta delineando un inedito progetto educativo.
Altrimenti alla didattica non resta che affidarsi al gioco dei meritevoli e capaci, trascurando tutti quelli che si perdono anno dopo anno. E non importa se classificati tra i dispersi o tra gli analfabeti licenziati. Tutt'al più ci si può sempre conformare a una delle teorie oggi alla moda, quella di Howard Gardner sulle intelligenze multiple, e ben presto i vecchi analfabeti si potranno dire "diversamente colti", oppure "esperti illetterati", al modo dei "diversamente abili" o degli "intelligenti corporali". Però non sarà l'ipocrisia delle parole a camuffare la pedagogia della violenza.
In questo scontro a suon di cifre tra l'Unla e il Ministero son perdenti entrambi. E spiegherò la mia opinione. Analfabeta si può dire di chi non sa lèggere né scrivere le lettere alfabetiche, ma pure di chi non è in grado di lèggere o di scrivere la lingua del suo paese. Illetterati del primo tipo è assai probabile che possano essere in Italia quasi 800.000, ma non si può capire quella cifra del restante 54% d'italiani analfabeti se non si tiene conto che riguarda cittadini cui l'insegnamento imposto dalla scuola non si è svolto nella propria lingua.
Più della metà dei cittadini è andata a scuola ricevendo, come tutti da bambini e da ragazzi, un'istruzione in una lingua molto spesso sconosciuta. Inoltre, come se non bastasse, questa lingua ignota bisognava leggerla e anche scriverla senza fare errori. Questo complessivo 66% ha frequentato classi i cui docenti non parlavano l'idioma a loro noto. A questo popolo di bimbi che diremo, se si vuole, dialettofoni, nessuno ha mai fatto lezione del dialetto. Né si è pensato ad insegnare l'italiano sulla base di una didattica contrastiva che partisse dalle competenze dialettali.
Sottraendo da 144 anni ad ogni nuova generazione l'uso della propria lingua in classe, non soltanto si calpestano i diritti linguistici sanciti dalle carte e dai trattati internazionali, ma si vulnera allo stesso tempo il potenziale cognitivo che il ragazzo porta a scuola, impedendogli di apprendere e di esprimersi nell'unico linguaggio che conosce. Ed ecco perché a Napoli e in Campania sono più di 2 milioni le persone a risultare analfabete, indotte a farsi carico di questa croce per chi sa quant'altro tempo. E si tratta di analfabetismo doppio. Perché non solo ignorano la lingua nazionale che nemmeno parlano, ma per di più non sanno lèggere né scrivere neppure quella loro lingua originaria di cui sono esperti locutori.
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