|
|
|
PROPOSTA DI LEGGE n. 1059
d’iniziativa del deputato Alfonso Pecoraro Scanio
Norme per la tutela e la valorizzazione dei dialetti
Presentata il 26 giugno 2001
Relazione
Onorevoli Colleghi! - La situazione linguistica italiana è
caratterizzata dalla presenza, accanto alla lingua nazionale, di
parlate locali che spesso divergono notevolmente da essa. Tali parlate,
soprattutto nel corso del secondo Novecento, sono andate sempre
più regredendo di fronte all’espansione dell'italiano,
favorita da diversi fattori di natura socio-economica e culturale,
che hanno avuto notevoli riflessi linguistici, indirizzando la popolazione
verso l’uso di una lingua comune. Tuttavia, nonostante il
regresso dei dialetti, la dialettofonia è ancora radicata
nel comportamento linguistico degli italiani. La situazione ideale
sarebbe la coesistenza di più tradizioni linguistiche, in
cui il dialetto non sia lingua esclusiva e quindi barriera all’intercomunicazione,
ma in cui l’apprendimento della lingua (e della cultura) comune,
sicuramente indispensabile per una crescita civile, non significhi
alienazione del patrimonio linguistico-culturale di provenienza.
In questo senso si sono espressi i linguisti italiani, fautori di
un’educazione linguistica democratica, aperta alle più
diverse possibilità comunicative ed espressive, liberamente
scelte.
Gli stessi articoli 3, 6 e 21 della Costituzione tutelano gli idiomi
delle minoranze ed il diritto per tutti alla libertà di espressione,
e stabiliscono che non debbano esservi, nel nostro Paese, discriminazioni
per ragioni linguistiche. Tutelare oggi i dialetti e le parlate
locali non significa incentivare anacronistici particolarismi etnici,
ma garantire pari dignità e possibilità di espressione
ad una pluralità di forme espressive, considerevole patrimonio
culturale per il nostro Paese.
L’affermazione della lingua e della cultura nazionale non
deve necessariamente avvenire a scapito delle lingue e culture locali.
Così sostengono illustri linguisti e semiologi: al rischio
di una eccessiva standardizzazione e massificazione si risponde,
oggi, con la riscoperta e la valorizzazione delle lingue altre.
Diversi sono, del resto, i segnali di un rinnovato interesse, a
vari livelli, per le parlate locali: dai poeti contemporanei che
utilizzano proprio le lingue dialettali per le loro opere come nuove
forme espressive oltre l’italiano standardizzato e massificato,
all’uso del dialetto nel nuovo teatro di ricerca o in esperienze
musicali giovanili, alla costituzione, negli ultimi decenni, dei
musei della civiltà contadina e marinara, all’insegnamento
nelle università di “Dialettologia”, “Tradizioni
popolari”, “Etnomusicologia”, alla produzione
editoriale.
Scrive Giuseppe Bellosi sul n. 73 de “Il lettore di Provincia”,
Dialetti e cultura popolare in Italia nell'ultimo quindicennio:
un rinnovato interesse: «Abbiamo già detto che il numero
di coloro che parlano in dialetto è in diminuzione costante.
Il fenomeno è stato giudicato da alcuni come positivo in
quanto testimonierebbe la volontà delle classi popolari -
legate storicamente ai dialetti - di uscire dalla loro subalternità
culturale; da altri invece è stato visto come il frutto della
costrizione del sistema economico capitalistico che, per poter contare
sulla progressiva dilatazione dei mercati fondata sulla standardizzazione
dei bisogni, favorirebbe l’omogeneizzazione culturale rimuovendo
anche gli ostacoli linguistici alla massificazione, come, appunto,
i dialetti».
Osserva giustamente Luigi Maria Lombardi Satriani: «Non si
tratta, con ciò, di diventare dialettofili, quasi che l’uso
del dialetto sia in ogni caso e automaticamente segno di vitalità
culturale. Ma neanche è esatto rinchiudersi in una dialettofobia
che identifichi arbitrariamente dialetto e povertà culturale,
dialetto e conformismo, conservazione, reazione. Molti, invece,
ritengono che l’aumento degli italofoni sia un effetto del
progresso e si mostrano perciò paghi di questo processo,
lento ma inarrestabile, di crescita culturale. A mio parere, ritenere
in ogni caso positiva la perdita del dialetto per l’acquisizione
della lingua è posizione estremamente generica e acritica.
Si dimentica che quasi sempre la fuga delle classi dominanti dal
dialetto ha portato tali classi all’acquisizione di un italiano
subalterno, per cui non solo non si è giunti alla reale conquista
di una pluralità di registri linguistici, ma si è
stati sottoposti ad un’opera di espropriazione della propria
specificità culturale».
Ideale, lo si ripete, sarebbe la coesistenza di più tradizioni
linguistiche e in questo senso si sono espressi i linguisti italiani,
fautori di un’educazione linguistica democratica, aperta alle
più diverse possibilità comunicative ed espressive,
liberamente scelte. In questo senso Tullio De Mauro interpreta gli
articoli 3, 6 e 21 della Costituzione italiana, che stabiliscono,
rispettivamente, che non possono esservi discriminazioni per ragioni
linguistiche, che gli idiomi di minoranza siano tutelati, che la
libertà di espressione è un diritto di tutti: «Consegue
da questo complesso di norme che è una funzione pubblica
generale e primaria garantire a tutti i cittadini e a tutte le comunità
sia il rispetto e la tutela di ogni particolare tradizione linguistica
propria di comunità insediate sul territorio nazionale sia
la promozione della capacità di acquisire gli strumenti linguistici
necessari alla piena reciproca comunicazione di tutti con tutti.
La Repubblica tutela le diversità idiomatiche, non i ghetti;
tutela tutte le diversità idiomatiche, e non queste o quelle
solamente; tutela insieme il diritto a muoversi liberamente, capendo
e facendosi capire, su tutto il territorio della Repubblica, quindi
tutela il diritto all’acquisizione di un vocabolario, una
grammatica, una pronunzia, una cultura aventi un raggio di utilizzazione
non puramente locale». E aggiunge: «Questa prospettiva,
a noi pare, è tale da spazzare via sia il sentore di reazione
e qualunquismo che accompagna a volte l’azione di certi fautori
[...] dei diritti delle minoranze in senso stretto, sia l’esaltazione
dei dialetti come “altra cultura” da contrapporre, come
ingenuo rimedio d’ogni male, alla “cultura borghese”».
Delle indicazioni dei linguisti ha tenuto conto la scuola che, in
un passato non troppo lontano, o si era distinta nella lotta diretta
contro i dialetti o, nel migliore dei casi, aveva rimosso il problema,
ignorando l’esistenza delle parlate locali e della dialettofonia
degli alunni, considerando il dialetto nocivo all’apprendimento
della lingua nazionale e quindi da estirpare o da ignorare. I programmi
didattici per la scuola primaria, del 1985, riconoscono che ogni
bambino «ha un’esperienza linguistica iniziale di cui
l’insegnante dovrà attentamente rendersi conto e sulla
quale dovrà impostare l’azione didattica», proponendosi
l’obiettivo di far conseguire la capacità di comunicare
correttamente in lingua nazionale, a tutti i livelli, dai più
colloquiali e informali ai più elaborati e specializzati
e rispettando «l’eventuale uso del dialetto in funzione
dell’identità culturale del proprio ambiente».
Nei programmi di insegnamento per la scuola media inferiore, del
1979, si riconosce che «La particolare condizione linguistica
della società italiana, con la presenza di dialetti diversi
e di altri idiomi e con gli effetti di vasti fenomeni migratori,
richiede che la scuola non prescinda da tale varietà di tradizioni
e di realtà linguistiche. Queste vanno peraltro considerate,
dove esistono, come riferimento per sviluppare e promuovere i processi
dell’educazione linguistica anche per la loro funzione pratica
ed espressiva come aspetti di culture ed occasione di confronto
linguistico». Ma per la concreta applicazione di tali princìpi
nella pratica didattica mancano indicazioni metodologiche e strumenti
adeguati. «Ad esempio difficilmente i libri di testo, anche
i migliori, riescono ad essere strumenti sufficientemente validi
a meno che non vengano integrati da manualetti aggiuntivi e intercambiabili,
diversi da regione a regione. La stessa ricerca sui vari italiani
regionali, o sui diversi dialetti, è lontana dall'essere
completa e dall'offrire strumenti di riferimento teoricamente omogenei.
Tanto meno esistono fatiche contrastive tra italiano e dialetti
complete e utilizzabili in chiave pedagogica».
Merita di essere letta anche una “inchiesta fra scrittori,
poeti, sociologi, specialisti” dal titolo I dialetti e l'Italia
compiuta da Walter Della Monica e uscita nel 1981, da cui risulta
che la maggioranza degli intervistati ritiene negativo l’abbandono
del dialetto, a favore del quale, riproponendo la nota posizione
dei linguisti, si esprime anche Umberto Eco: «L’Italia
ha dovuto lottare a lungo contro la permanenza dei dialetti che
impedivano alla maggioranza dei cittadini di adire alla conoscenza
della lingua nazionale, strumento indispensabile per una crescita
civile. I dialetti in tal senso rimanevano come elementi di una
divisione di classe. Tuttavia, grazie anche all’avvento dei
mezzi di massa, la lingua nazionale si è imposta anzi, in
molti casi, si è imposta come fattore di standardizzazione
“anonimizzante”, e con funzioni negative. A questo punto
il problema del recupero delle tradizioni dialettali e del dialetto
come lingua di base, capace di favorire la comunicazione di valori
locali, in alternativa ai valori imposti dai mezzi di massa, ritorna
come problema di un recupero d’autonomia. In altri termini,
il dialetto è una condanna per chi non ha mai potuto impadronirsi
della lingua nazionale, ma deve essere una possibilità positiva
per chi lo può scegliere come secondo strumento espressivo».
Alcuni intervistati riconoscono che sulla loro produzione artistica
incide anche il dialetto. Affermava per esempio, Federico Fellini:
«In tutti i miei film il dialetto, sia esso romagnolo o romanesco
o quello dell’entroterra napoletano di 2.000 anni fa, è
il linguaggio verbale più diffuso non soltanto per motivo
di credibilità, di coerenza, di folklore o di suggestione,
ma perché il dialetto riesce ad esprimere con una forza,
una violenza addirittura visive, folgoranti connotazioni di tipo
storico, psicologico, sociologico, emotivo. Insomma, dei tanti segni
in cui la vita e la storia si coagulano, il dialetto è il
riverbero più vivido, una sonora, incessante metafora da
proteggere e conservare».
Ma l’aspetto senz’altro più rilevante del recupero
dei dialetti, proprio nel momento in cui essi sono in crisi come
lingue parlate, è il loro uso come lingue letterarie. Si
registra in alcune regioni, per esempio in Romagna, una straordinaria
fioritura di compagnie teatrali di dilettanti che portano sulle
scene testi dialettali riscuotendo grande successo di pubblico,
anche se la qualità dei testi e della recitazione non supera
quasi mai un interesse puramente locale. Il caso di Eduardo De Filippo
è del tutto eccezionale nel panorama del teatro dialettale
del Novecento.
In questo dopoguerra, ma soprattutto nell’ultimo quindicennio,
ad opera di autori di ambiente dialettofono, sono state invece composte,
nei diversi dialetti, alcune delle più significative opere
della poesia contemporanea. Pier Vincenzo Mengaldo, che ha inserito
molti dialetti nella sua antologia Poeti italiani del Novecento,
pubblicata da Mondadori nel 1978, afferma che la categoria di poesia
dialettale è improponibile, stante l’«estrema
varietà delle motivazioni e finalizzazioni [...] che sorreggono
i singoli impieghi poetici dei dialetti»; tuttavia, tenendo
conto del fatto che i dialetti hanno in comune, per definizione,
l’opposizione verso la lingua nazionale, «la varietà
delle condizioni o realizzazioni individuali non deve impedire di
scorgere e sottolineare gli elementi comuni e unificanti, determinati
dall’unità del fenomeno con cui tutti si confrontano
e a cui tutti si sottraggono, l’egemonia della cultura e della
lingua (poetica) “nazionale”. Si può dire, rapidamente,
che alla pluralità frazionatissima delle operazioni e degli
esiti [...] si contrappone il carattere almeno parzialmente unitario
della genesi e - ciò che va fortemente marcato - della ricezione.
In questo senso la resistenza e controffensiva odierna della poesia
in dialetto può e deve essere interpretata anche, globalmente,
come atto di rifiuto e opposizione, magari in articulo mortis, alla
sempre più spietata rapidità del processo di accentramento
livellatore che sta completando la distruzione, avviata all’origine
dello Stato unitario, di quelle variatissime differenze e peculiarità
di lingua e di cultura che erano una delle ricchezze, e delle più
originali, del nostro Paese».
Non diversamente si esprime Franco Brevini, nel saggio introduttivo
alla sua recentissima silloge Poeti dialettali del Novecento,
pubblicata da Einaudi nel 1987, quando afferma che «proprio
dall’imporsi sempre più incondizionato dell’italiano
standard trae una delle sue più profonde ragioni di essere
tale poesia» e individua all’origine del fenomeno le
medesime tensioni che sono alla base della ripresa del particolarismo
etnico e linguistico di cui si è detto.
Tuttavia la poesia dialettale, nei suoi esiti migliori, è
un fatto essenzialmente letterario, in cui la scelta del dialetto
è anzitutto scelta di una lingua poetica personale, che può
portare a forme elitarie di espressione del discorso interiore (Mengaldo
parla, in proposito, di “endofasia”, di “dialettalità
introversa”), ma attraverso la quale «possono affiorare,
magari contro le intenzioni o all’insaputa dell’operatore
(che non di rado approda al dialetto, con la formula di Montale,
soprattutto “per saturazione letteraria”), i contenuti
di una cultura “diversa” propria del mondo emarginato
che in tale parlata si esprime e di quella che potremmo chiamare
la sua anti-storia o non storia».
Per una giusta valutazione del fenomeno occorre inoltre tenere presente
che i poeti che usano il dialetto vivono in una dimensione culturale
ben più ampia di quella regionale (spesso sono da essa lontani
anche fisicamente) e hanno talvolta maturato esperienze artistiche
di alto livello in altri campi, come, ad esempio, il romagnolo Tonino
Guerra, trapiantato a Roma, ma che conserva solidi legami con il
suo paese d'origine, sceneggiatore cinematografico (ha collaborato
con Fellini, Antonioni, Tarkovskij), romanziere in lingua italiana,
che ha scelto per scrivere le proprie poesie il dialetto santarcangiolese.
Scrive Tullio De Mauro su ‘La rivista dei libri’, ottobre
1992, “Una legge per le lingue”: «Dialetto
locale, in forme più o meno colte, e francese erano, a metà
ottocento, le lingue “vive e vere” (per riprendere la
famosa espressione manzoniana) delle borghesie colte delle diverse
città italiane. Ma non l’italiano stesso, relegato
al rango di lingua di atti ufficiali scritti e di scritture letterarie.
Soltanto dopo l’unificazione politica del Paese, ma di nuovo
con grande lentezza e con modalità diverse da una regione
all’altra, è cominciato un processo di convergenza
di più ampi strati sociali verso l’uso scolastico e
scritto dell’italiano. Ma ancora a inizio anni ’50 solo
il 17 % della popolazione usava abitualmente l’italiano, e
circa il 65 % sapeva servirsi e si serviva soltanto di uno dei dialetti.
Dagli anni ’70 indagini campionarie della Doxa e dell’Istat
ci hanno consentito di seguire la lenta marcia dell’italiano
da lingua “d’elezione” verso il ruolo di lingua
naturale, se non ancora nativa per la maggioranza. Secondo l’ultima
indagine Istat disponibile, oggi l’87 % della popolazione
dichiara di sapere usare l’italiano, solo il 13 % resta legato
in modo esclusivo a parlate diverse (dialettali o, in zone circoscritte,
alloglotte). Ma solo il 38 % della popolazione dichiara di usare
sempre, anche tra le mura di casa, l’italiano. Fra il 13 %
di dialettofoni (e alloglotti) esclusivi e il 38 % di italofoni
esclusivi, si installa il 49 % della popolazione che dichiara di
usare alternativamente, a seconda delle circostanze, ora l’italiano
(soprattutto in pubblico, con persone note) ora uno dei persistenti
dialetti e idiomi alloglotti (soprattutto in famiglia e con amici).
Perché potesse progredire l’acquisizione dell’italiano
attraverso la scuola, cento e passa anni fa Graziadio Isaia Ascoli,
caposcuola della linguistica italiana, e Francesco De Sanctis delinearono
una politica linguistica della scuola che facesse leva sui dialetti
locali al fine di una migliore acclimatazione dell’italiano
in ambienti che ne erano lontani. Nonostante i consensi successivi
di personalità eminenti, come Giuseppe Lombardo Radice, i
ministri Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Antonio Gramsci e,
tra i linguisti, a tacere d’altri, Giacomo Devoto, la scuola
per un secolo si è mossa su linee di ottuso disprezzo delle
realtà dialettali, di condanna e spregio dei dialetti, con
risultati catastrofici (ancora nel 1961 due terzi della popolazione
italiana erano privi di licenza elementare, si dicessero o no analfabeti:
eppure dal 1900 tutti avevano messo piede in prima elementare).
Soltanto a partire dal rifacimento dei programmi della scuola media
dell’obbligo, ad inizio degli anni ’80, poi delle elementari,
le indicazioni di Ascoli, De Sanctis, Lombardo Radice, Devoto, sono
state accolte e sono diventate testo di programmi ormai operanti.
Naturalmente i programmi aprono la porta anche al riconoscimento
dell’attenzione alle parlate alloglotte; ma, mentre ai fini
del rapporto tra italiano e dialetti l’attenzione didattica
stimolata dai programmi e il rispetto per le realtà dialettali
sono sufficienti, diversamente stanno le cose per gli idiomi alloglotti.
Per insegnanti e per alunni la distanza tra italiano e idioma alloglotto
è troppo marcata perché sia colmabile attraverso confronti
artigianali e prese in carico occasionali di testi non italiani,
in dialetto: così si insegnano congiuntamente l’amore
e il rispetto per la lingua e i dialetti, e ciò basta a salvaguardare
un equilibrato rapporto tra uso dell’italiano ed eventuale
persistente uso di parlate dialettali; ma la salvaguardia di idiomi
assai distanti dal blocco dell’italiano e dei dialetti italo-romanzi
richiede altro che indicazioni sulla miglior didattica dell’italiano.
Richiede decisioni politiche generali e programmi e spazi didattici
specifici, posto che tale salvaguardia paia desiderabile».
Alcune regioni italiane hanno realizzato provvedimenti legislativi
ispirati ai princìpi sopra richiamati. Cinque sono le leggi
regionali che trattano in maniera organica della tutela e valorizzazione
del dialetto (Sicilia, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna,
Emilia Romagna). La presente proposta di legge, composta da quattro
articoli, intende costituire un riferimento normativo nazionale
in materia di tutela e valorizzazione dei dialetti.
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1. (Finalità)
1. Le regioni, in attuazione delle finalità in materia di
promozione del patrimonio storico e culturale del proprio territorio,
tutelano e valorizzano i dialetti di origine locale nella loro espressione
orale e nel loro utilizzo letterario, presenti e riconoscibili in
porzioni del territorio regionale, coincidenti o meno con circoscrizioni
amministrative subregionali.
Art. 2. (Iniziative)
1. Le regioni sostengono le attività rivolte alla tutela
ed alla valorizzazione dei dialetti e del patrimonio letterario
dialettale, quali la narrativa, il teatro, la poesia ed il canto.
2. Le attività di cui al comma 1 comprendono i seguenti settori:
a) studi e ricerche;
b) realizzazione di sussidi all’attività didattica;
c) iniziative scolastiche tese a valorizzare i dialetti delle regioni
nelle loro varie possibilità espressive;
d) corsi di formazione e di aggiornamento, seminari e convegni;
e) iniziative editoriali, discografiche, audiovisive, multimediali
ed espositive;
f) costituzione ed incremento di fondi bibliografici od archivi
sonori;
g) manifestazioni, spettacoli, trasmissioni radiofoniche e televisive,
produzioni artistiche che trattano dei dialetti delle regioni;
h) ricerche e studi sulla toponomastica.
Art. 3. (Convenzioni)
1. Per l’attuazione delle iniziative di cui all'articolo 2,
le regioni possono:
a) in collaborazione con province, comunità montane e comuni,
stipulare convenzioni con istituti universitari, centri di documentazione
e di ricerca, pubblici e privati, enti ed associazioni culturali
non aventi fini di lucro, organi collegiali scolastici;
b) assegnare borse di studio e premi per tesi di laurea riguardanti
i dialetti delle regioni.
Art. 4. (Copertura
finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente
legge, pari a lire 3 miliardi per il triennio 2001-2003, si provvede
mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai
fini del bilancio triennale 2001-2003, nell’ambito dell’unità
previsionale di base di parte corrente “Fondo speciale”
dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio
e della programmazione economica per l’anno 2001, allo scopo
parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo
Ministero.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato
ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
|